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Posts Tagged ‘Emilio Cecchi’

I rapporti epistolari

Questi sfoghi e confidenze non devono stupire, in quanto Comparoni riuscì a rivelare molto di sé negli intensi rapporti epistolari che ebbe nei dieci anni di corrispondenza con l’editore Vallecchi e nei sei con Cecchi. La forma epistolare non fu senz’altro di ostacolo all’espressione dei sentimenti dello scrittore perché gli dava una tranquillità che gli permetteva di raggiungere il delicato punto di equilibrio tra il nascondersi e lo svelarsi; lo scrittore lo dichiara espressamente in una lettera del luglio1945 all’editore: “… per quanto si dica il contrario, io sono del parere che almeno in certe circostanze ci si intenda meglio per lettera, anche perché si possono vincere certi pudori e la sincerità non corre il rischio di essere presa per retorica”1. Lo scrittore reggiano, poi, visse questo singolare rapporto editore – autore con un sincero sentimento d’affetto, tanto che fu sempre riluttante a rivolgersi ad altre case editrici, anche quando le promesse editoriali vallecchiane non presero la via della realizzazione. In Vallecchi, infatti, D’Arzo vedeva non tanto o non solo l’editore, quanto un amico capace di comprenderlo e rassicurarlo, come appare dalla lettera del 24 febbraio 1943: “Caro Vallecchi, poiché i nostri rapporti non debbono essere soltanto di natura, diremo commerciale, non è giusto che io vi scriva per o mandarvi un fascio di bozze o chiedervi il giudizio su qualche miolavoro. Questa volta, ad esempio, ho sentito il bisogno di scrivere qualche parola o breve impressione ad un amico”2; o da altri stralci di lettere: “Vorrei ringraziarvi soprattutto per quelle gentili sfumature, per tutto quello cui io non posso dare un nome preciso, definibile, ma che ha dato a quello che in fondo non era che un contratto, un sapore, un valore, un’intimità davvero singolari: ed è quello a cui tengo e terrò sopra ogni altra cosa.[…] Libri se ne possono scrivere o inventare: quello cui tengo, invece, è la vostra vecchia amicizia”,3 e ancora: “Vorrei ringraziarvi di tutto, di gran cuore, e dirvi che, fra le (chiamiamole così) avventure dei miei anni, la vostra amicizia è certo la più grata e confortante”.(31 agosto 1943)4. Nella figura dell’editore, l’ansioso e inquieto D’Arzo trovava un ascoltatore attento e rassicurante e il pacato e ottimista Vallecchi veniva ad assumere, in questo caso, quasi il ruolo del padre che non aveva mai conosciuto. Le stesse parole dello scrittore sono rivelatrici a questo proposito: quando seppe che i bombardamenti del ‘43 avevano danneggiato la casa editrice, gli scrisse il 2 novembre dello stesso anno: “Caro Vallecchi, quando partii il 7 settembre mi accompagnò la vostra cara lettera: e, poiché siete sempre così invidiabilmente sereno, possibile, penso, che abbiate potuto soffrire gravi danni? No, no: vi dico che non riesco sul serio a crederci, come pensare (da bimbo) che anche i padri possono piangere talvolta”.5

Molto importante per Comparoni fu anche il rapporto epistolare con Emilio Cecchi, che interessa gli anni dal 1946 al 1951; D’Arzo, che nutriva una grande ammirazione e una cieca fiducia nelle capacità critiche dell’autore di Scrittori inglesi ed americani, si rivolgeva a lui come ad un maestro e una guida a cui confidare i suoi dubbi e le sue incertezze di scrittore, e gli inviava le opere che andava ultimando, accompagnate da insistenti preghiere per averne un giudizio critico. Casa d’altri, ad esempio, ebbe un commento favorevole, accompagnato da suggerimenti che D’Arzo, rielaborando l’opera, seguì scrupolosamente.

D’altra natura fu l’amicizia con Ada Gorini, quale ci viene rivelato da undici lettere scritte dal 1949 al 1951, che probabilmente sono solo una parte di quelle che lo scrittore indirizzò alla donna.

Ada era una tormentata pittrice reggiana; non sappiamo come Ezio la conobbe, né come iniziò il loro rapporto; in una lettera all’amico Azzali, Comparoni accenna ad un grosso debito di riconoscenza da parte sua e della madre nei confronti della Gorini. Si potrebbe pensare, quindi, che all’inizio sia stato il desiderio dello scrittore di sdebitarsi, ad indurlo a cercare la Gorini; ma dalle prime lettere si ricava l’impressione che la donna abbia cercato, almeno inizialmente, di sottrarsi agli incontri.

A questo avvio piuttosto lento ed incerto seguì una relazione non senza contrasti ed incomprensioni, complicata dalle acute e ombrose sensibilità dello scrittore e della pittrice e tutta pervasa da un’atmosfera in cui la vita reale si compenetrava di letteratura: “Eccole i libri […]fossi in lei, io comincerei col ‘Caro estinto’: e poi ‘L’altare dei morti’ (che troverà alla fine di ‘Giro di vite’): e poi, negli anni prossimi gli altri. Quanto a James, non dimentichi: ore 5 tè, caminetto convenientemente acceso. Mi raccomando però: niente castagne o caramelle Golia: basterebbero a rovinare ogni cosa”6, scrive ironicamente il 21 novembre 1949. Più seriamente, invece, il 19 maggio 1950: “Ada eccoti il nostro Lord Jim: spero che tu mi permetta di chiamarlo così: oggi non c’è niente di più nostro di quel libro: neanche noi. […] Credo che Lord Jim continuerà ad essere una presenza silenziosa e comprensiva su noi due. Certi libri, per certe persone, sanno servire anche a questo: e il silenzio alle volte ha illimitate possibilità e risonanze.”7

1 op. cit. pagg. 129 – 130.

2 op. cit. pag.78.

3 op.cit. pag. 79

4 op. cit. pag.96.

5 op. cit. pag.99. (l’ultima frase sarà presente anche nel racconto L’uomo che camminava per le strade).

6 op. cit. pag. 119.

7 op. cit. pagg. 120 –121.

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Lo scrittore e il mimetismo onomastico

Comprendiamo dalle sue stesse parole cosa significasse lo scrivere per Ezio Comparoni: “Niente al mondo è più bello che scrivere. Anche male. Anche in modo da far ridere la gente. L’unica cosa che so è forse questa.”1. E in una lettera a Cecchi, del 26 luglio 1947, confessa la centralità di questa esperienza nella sua vita: “… Dipenderà dalle sue parole se io continuerò a scrivere o lascerò per sempre ogni cosa. Per altri, questo non sarà certo importante: ma io non ho altro, non ho niente altro, e questo per me è quasi tutto”.2Si tratta, dunque, di una passione, e di una passione molto precoce: a soli quindici anni, infatti, pubblica una raccolta di poesie, Luci e penombre e una di racconti, Maschere, sotto il primo parziale pseudonimo di Raffaele Comparoni.

Già da questo primo momento, lo scrittore manifesta la volontà di non lasciare trapelare il suo segreto fuori delle mura domestiche e della ristretta cerchia d’amici: sempre, infatti, terrà celata la paternità delle sue opere sotto svariati pseudonimi, come Andrew Mackenzie, Andrea Colli, Sandro Nedi. Il più noto di tutti fu Silvio D’Arzo, con cui firmò l’unico libro che vide pubblicato mentre era in vita, il romanzo All’Insegna del Buon Corsiero.

È lo scrittore stesso che simpaticamente spiega la scelta di tale pseudonimo, in una delle rarissime confidenze ad un amico: “Se t’incuriosisce conoscere, una curiosità meramente glottologica s’intende, la ragione della scelta e la derivazione dello pseudonimo che qualche volta uso per i miei scritti…, c’è da sorridere e da non crederlo, se valesse la pena mentire su una quisquilia del genere. Non è un nome di fantasia, come qualcuno può ritenere, né si riferisce a qualche personaggio di leggenda. Creandolo ho inteso semplicemente richiamare le mie origini. D’Arzo vuol dire ‘da Reggio’. Arzo è la sostantivazione geografica e in lingua di ‘arzan’ che in dialetto significa reggiano. Quindi Silvio da Reggio”Questo pseudonimo, utilizzato all’inizio della sua produzione letteraria, come si diceva, appare dunque legato agli anni della formazione universitaria, che si conclusero con la discussione della tesi in glottologia, intitolata Aggiunte e correzioni all’A.I.S.4 Per il centro 444.5 Se, in questo caso, le parole dello scrittore ci permettono di cogliere l’origine linguistica del nome d’arte, più difficile è trovare una spiegazione esaustiva del suo mimetismo onomastico. Lo pseudonimo, infatti, non fu per Ezio Comparoni un capriccio: la scelta stessa lo tormentava, come ci permettono di capire alcuni passi della lettera ad Emilio Cecchi del 29 agosto 1947: “Scrivo dalla provincia […], con uno pseudonimo da attore di rivista […]. E il racconto uscirà con un nuovo pseudonimo, che debbo ancora trovare, ma che sarà il più normale, umano possibile, e che le farò certo sapere: tutto quello che ho scritto prima del mio incontro con lei voglio che sia cancellato del tutto”6. In quest’ultima affermazione, la scelta di un nuovo pseudonimo appare come la volontà di un netto stacco dalla produzione precedente, la possibilità di convogliare tutte le forze verso un nuovo inizio, un rinnovamento artistico. Sembra avvalorare un’interpretazione di questo genere anche il passo di una lettera a Enrico Vallecchi, il suo editore, lettera non datata, ma da collocarsi sicuramente fra il settembre e l’ottobre del 1947: “… C’è poi un’altra cosa: ormai, dati i tempi mutati, data quest’epoca nuova, dopo una guerra del genere, chiamarsi Silvio D’Arzo è nello stile del peggiore d’Annunzio e di qualche cantante d’operetta: io lo scelsi quando ero ancora un ragazzo, e mi si poteva anche perdonare. Adesso no: non si può: e, dal momento che, per un libro per ragazzi, scritto e stampato per i ragazzi, il fatto che io abbia scritto una volta ‘Il buon corsiero’, non può destare né curiosità né interesse, né influire benevolmente in qualche modo, ne prendo un altro: Aldo Colli: che è comunissimo: oppure Aldo Collin”.7

A considerare attentamente l’aspetto del mutamento del nome d’arte, come sostiene Anna Luce Lenzi8, appare dunque evidente che lo pseudonimo per Ezio Comparoni rispondeva anche alle esigenze letterarie dell’artista, e cioè “che il suo mimetismo onomastico finì per costituire un aspetto dell’ininterrotta ricerca d’identità stilistica, l’unica identità che profondamente premeva allo scrittore”. La stessa Lenzi, poi, approfondisce il concetto, ribadendo che per Comparoni “gli pseudonimi non erano solo una maschera anagrafica; racchiudevano anche il senso che di volta in volta voleva assumere l’artista nei confronti della realtà in sede di trasposizione letteraria. Anche quello di Silvio D’Arzo, tanto per parlare del più durevole, parve intonato a una forma d’arte, alle eleganze della letteratura d’evasione. Il nome andò legato soprattutto al romanzo fantastico All’insegna del Buon Corsiero: con quella patina di nobile arcaismo derivantegli dal vago D’Arzo […]. Altri pseudonimi, come Andrea Colli, Sandro Nedi, indicavano invece la svolta che lo scrittore avrebbe imboccato nei suoi ultimi tempi verso la coscienza del reale, quando l’esperienza bellica gli aveva ormai aperto gli occhi su una tristezza e uno squallore non più soltanto suoi. Ed ecco che si proponeva allora, con una semplicità e convinzione particolare, seria e fanciullesca insieme, di scegliere un nome di quelli “ordinari come la carta gialla”, per usare una sua vecchia espressione: Paterlini Dante, o Ferrari, o Paccini; e si proponeva al tempo stesso di parlare nei suoi racconti di cuoio, di ferro, di cannoni. […]. D’Arzo aveva ideato per il romanzo lasciato, alla morte, appena abbozzato e su cui puntava tutte le sue speranze, uno pseudonimo che faceva parte integrante del titolo: Nostro Lunedì – Di Ignoto del XX secolo. Con questo confondersi in una folla, ignoto fra gli ignoti, ma loro uguale, Ezio Comparoni avanzò di un altro passo, l’ultimo, verso quella dignitosa accettazione della vita che andava cercando”9. Conferma la tesi della Lenzi, l’amico più caro dello scrittore, Canzio Dasioli10, secondo il quale, infatti, ogni pseudonimo di Comparoni costituisce per così dire uno dei tanti ‘assaggi’ al coperto dell’anonimato per avvicinarsi ai suoi modelli letterari, verso una meta, un sogno cullato fin dall’infanzia, ma di cui non si sentiva ancora all’altezza.

Si intrecciano con questa motivazione artistica così importante e significativa per comprendere la produzione letteraria darziana, e in un certo senso si fondono in un nucleo complesso dalle sfaccettature varie e a volte sfuggenti, altre motivazioni di carattere psicologico  – ambientale, che aiutano a capire il suo calarsi in sempre nuovi pseudonimi, quasi alla ricerca di una mai soddisfatta identità e per un bisogno di ritagliare alla sua attività di scrittore uno spazio di anonimato e di silenzio.

Ezio Comparoni si sentiva, infatti, condizionato dall’ambiente di provincia: temeva i pettegolezzi, la pubblicità e lo pseudonimo era condizione di libertà interiore e di concentrazione. Da sempre, poi, si portava dentro, come si è già detto, l’insicurezza della sua condizione di figlio illegittimo, per cui il dato anagrafico – sempre secondo la Lenzi- riuscì a lui: “più di ingombro che di garanzia: tanto da essere paragonato ad uno zaino da abbandonare, secondo le parole del disilluso tenente, che, in un racconto del 1950, attribuisce il proprio nome ad un morto sconosciuto, cui occorre dare sepoltura”.11

A tutto ciò si aggiunga la ritrosia, il fastidio, quasi il timore di essere additato come fenomeno cittadino, come espresse già in una lettera a Vallecchi del 20 giugno 1942: “Mi raccomando, per la mia buona pace provinciale, di tirare via la parola ‘Reggio Emilia’ da ogni pubblicità: e di non dirlo nemmeno a questi librai. Pensate che abbiamo glorie pugilistiche, tenori, direttori di biblioteche che scrivono odi saffiche alle statue, e che il minimo che potrebbe capitarmi sarebbe di vedermi messo fra tanta fama e onore municipali”.12 Ancora a Vallecchi, il 17 febbraio 1943, questa volta quasi a giustificare la sua usuale ritrosia: “…Non giudicatemi male, compatitemi: ma l’ambiente provinciale mi è così insopportabile, che voglio a tutti i costi ignorarlo ed esserne ignorato”.13 Non tralascia di accennare ai suoi timori nemmeno ad Emilio Cecchi, in una lettera del 29 agosto 1947: “…qui, in provincia, dove chi scrive è considerato dai più come uno stravagante, un bohemiens”. (sic).14

1 Nostro Lunedì, op. cit. pag. 240.

2 Op. cit. pag. 102.

3 AA. VV. Silvio D’Arzo uno pseudonimo per legittima difesa, 1994, pagg. 77-78.

4 A.I.S.: Atlante Linguistico Italo Svizzero a cura di P. Scheuermeier, G. Rohlfs, M.L.Wagner

5 Il centro 444 comprendeva i comuni reggiani di Albinea, Montericco e Piscerotto (toponimo quest’ultimo, scritto in modo errato dall’A.I.S., in quanto l’esatta grafia è Pissarotto).

6 op. cit. pag. 104.

7 Silvio D’Arzo – Enrico Vallecchi, Carteggio 1941-1951, “Contributi”, Biblioteca Municipale <<A. Panizzi>>, 1984, pag.205.

8 Lenzi, Anna Luce, Postfazione al volume: Lettere per Ada, ed. Diabasis, 1995, Reggio Emilia, p.35.

9 Ibidem.

10 Carteggio Dasioli –D’Arzo, presso la Biblioteca municipale A. Panizzi di Reggio Emilia.

11 Lenzi, Anna Luce, postfazione al volume: Lettere per Ada, Diabasis, 1995, Reggio Emilia, p.35.

12 Silvio D’Arzo – Enrico Vallecchi, Carteggio 1941- 1951, pag. 53.

13 op. cit. pag.73.

14 op. cit. pag. 104.

 

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Silvio D’Arzo: la nascita, l’ambiente, la formazione letteraria.

 

La vita di Ezio Comparoni, meglio noto come Silvio D’Arzo, sembra appartenere al protagonista di un libro dell’amatissimo Henry James: straordinariamente “priva di fatti”, secondo la felice formula di Pietro Citati1. Egli nacque nel 1920 da Rosalinda Comparoni e da padre ignoto, a Reggio Emilia, dove trascorse la sua breve esistenza accanto alla madre in un isolamento vissuto come un “volontario esilio”2. Quasi simbolo di questo isolamento fu lo “stanzone” di via Aschieri n°4, il luogo in cui Ezio crebbe, studiò, scrisse, trascorse gran parte della sua vita appartata, sempre cercando di sottrarla allo sguardo indiscreto di estranei e conoscenti, come timoroso di mettere allo scoperto la sua intimità. Sappiamo che egli, vergognoso del suo misero alloggio, sommariamente arredato da un letto, un fornello, un tavolo, con la legna da ardere addossata alle pareti, la stufa di ferro col tubo che attraversava la stanza per meglio riscaldarla, libri e altre cose per terra, in casse da imballaggio, riceveva chi andava da lui sul pianerottolo, dopo essersi prudentemente chiuso la porta alle spalle, non permettendo neanche agli amici di fargli visita. Agli allievi dava ripetizioni nello studio di un amico.3 Non mancarono, tuttavia, in questo ambiente povero d’incontri, alcuni legami che ebbero una grande importanza nella vita culturale ed affettiva del giovane: innanzitutto l’affetto profondo e costante che lo unì alla madre, poi i vincoli d’amicizia che egli strinse, ormai adulto, con un gruppo di giovani reggiani, cui si aggiunsero il particolare rapporto, fatto di fiducia e di stima, attraverso lo scambio epistolare, durato dieci anni, con il suo editore Vallecchi, e quello con il critico Emilio Cecchi; infine, negli ultimi anni della sua vita, il sentimento che nutrì per Ada Gorini.

La madre

La figura dominante nella vita dello scrittore fu senz’altro la madre, Rosalinda Comparoni, originaria di Cerreto Alpi, sull’appennino reggiano. La donna, che, priva di un’occupazione stabile si barcamenava in qualche modo anche leggendo carte e tarocchi nei giorni di mercato (dopo aver fatto inizialmente la cassiera in un cinema cittadino), con difficoltà riusciva a provvedere con quelle misere entrate ai bisogni suoi e del figlio. È lo scrittore stesso, nel racconto L’aria della sera, a parlare del “lunario di tutta Quaresima” che madre e figlio dovettero vivere insieme”.4 Questa povertà, che certamente costituì per entrambi un’incessante fonte di precarietà e di umiliazioni, aggiunse però anche nuovo stimolo al reciproco sentimento di appartenenza, che li portò quasi ad escludere il resto del mondo, dando significato alla loro vita insieme. Scriveva D’Arzo al suo primo (ed unico) editore, Vallecchi, in occasione della morte del padre di lui, Attilio Vallecchi: “Se mi dovesse morire mia madre, credo che odierei il mondo intero: e nei momenti di dubbio, quando sono alle prese con difficoltà letterarie e sento la mia dappochezza, mi rimprovero subito, al pensiero che ho mia madre e che la realtà che vale è solo quella”.5 Rosalinda Comparoni, sebbene fosse una povera ed umile donna del popolo, fu capace di intuire le straordinarie doti intellettuali di Ezio  indirizzandolo verso la cultura e la letteratura, che le apparivano come una nobile conquista, un superbo riscatto della sua condizione familiare e sociale. Ella lasciò una profonda impronta nella vita e nell’opera del figlio, che ne parla come di una “grande e irraggiungibile madre provinciale”6. Non rimase priva di influssi sul figlio neppure la sua loquacità vivacissima, che procedeva spesso per sentenze, con venature ironiche e ricchezza di immagini; così come non rimasero privi di echi, almeno nell’opera di lui, altri aspetti della personalità della madre come la religiosità. Rosalinda Comparoni era cattolica praticante e seguiva, con uno scrupolo che le veniva forse anche dalle consuetudini paesane, i riti liturgici; ma la sua era una religiosità “in bilico tra superstizione e fede, quelle stesse che D’Arzo fa rivivere in Casa d’altri, nel suo duplice carattere di ingenuità e ineluttabilità nella figura di Zelinda”.7

1 Citati, Pietro, Scrisse un racconto perfetto e morì a trentadue anni, “Il Giorno”, 31 marzo 1961.

2 Gianolio, Alfredo, Il mito dell’isola in Silvio D’Arzo, Contenuto in AA. VV.Silvio D’Arzo, uno pseudonimo per legittima difesa, Atti del convegno “Pomeriggio Ezio Comparoni” (Corte Tegge, 11 marzo 1994), Editrice Bertani & C. Reggio Emilia, p.43.

3 AA.VV.Testimonianze e riflessioni, Silvio D’Arzo uno pseudonimo per legittima difesa.

4 Biondi, Marino, Silvio D’Arzo e il mito della provincia, nel vol. Silvio D’Arzo, lo scrittore e la sua ombra,Vallecchi,1984, p.19.

5 S. D’Arzo – E. Vallecchi: Carteggio 1941-1951. “Contributi”, Reggio Emilia, 1977.

6 S. D’Arzo – E. Vallecchi, op. cit. p.86.

7 Lenzi, Anna Luce, Silvio D’Arzo.(Una vita letteraria), Reggio Emilia, 1977, p.12.

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