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Archive for Maggio 2014

 

Riporto,  per concludere,  il testo di una nota,  abbastanza lungo,  che avevo inserito nel saggio quando lo presentai al mio relatore.  Mi sembra un’integrazione funzionale al discorso fatto fin qui.

A partire dalle primissime pagine del Buon corsiero,  già molti meccanismi sono avviati che si riveleranno fondamentali nel corso della lettura.

L’arrivo della Marchesa innesca le reazioni dei servi e caratterizza una situazione esemplare.  Mentre tutti si danno da fare,  la giovane donna nota un particolarissimo senso di agitazione che anima il cortile,  e poco dopo interroga Lauretta e un servo per saperne la causa.  Alla domanda della Marchesa la ragazza risponde con infantile determinazione che in paese si sta per esibire il funambolista,  e la notizia viene accompagnata da una serie di minute spiegazioni che denotano l’assoluta singolarità che l’evento assume nella mente della gente.  Il servo,  poi,  conclude il racconto affermando di avere scommesso quindici scudi con Sertorio che il funambolo riuscirà ad attraversare,  e lo stupore,  scrive D’Arzo,  finisce per entrare nella Marchesa come una dolce malattia;  infine,  a un tratto,  tutta la locanda piomba nel silenzio magico e inquietante che da questo momento in poi accompagnerà tutte le entrate in scena dell’uomo in viola.  Lauretta,  poi,  richiesta dalla Marchesa,  scende le scale e si dirige nel cortile per scoprire la causa dell’improvviso mutamento.  Appena fuori dell’uscio,  sul corridoio,  incontra Lelio,  impegnato in maniera assolutamente sproporzionata alla bisogna,  nel lucidare le staffe di una sella,  allo scopo evidente di giustificare la sua presenza nel luogo in cui avrebbe potuto al più presto vedere la ragazza.  Mentre la locanda seguita ad essere immersa in un silenzio irreale,  si svolge il dialogo fra i due.  Lelio aggredisce,  o quasi,  Lauretta,  afferrandola per le spalle e chiedendole ansiosamente la conferma della notizia ricevuta casualmente e indirettamente,  quella mattina,  del matrimonio della sorella di Lauretta,  che vorrebbe dire,  per i due giovani,  la possibilità di sposarsi al più presto a loro volta.  Ma tutta l’audacia improvvisa di Lelio non è sufficiente a scuotere veramente la ragazza,  distratta da quel silenzio e già misteriosamente attratta da tutto ciò che quel silenzio sembra promettere e rappresentare.  Non senti questo silenzio?,  taglia corto,  a un tratto,  Lauretta;  poi,  senza attendere risposta,  scivola veloce giù dalle scale.  Nel cortile è entrato il funambolo,  e la sensazione comune,  annota lo scrittore,  è di totale sospensione del tempo,  pur nella consapevolezza,  da parte di tutti,  di quanto ciò sia eccessivo e inadeguato rispetto al pensiero di una pur straordinaria esibizione.

In ultimo,  a riprova delle somiglianze emerse – pur con le dovute proporzioni –  fra il mondo dello scrittore reggiano e certe soluzioni ricorrenti nella narrativa kafkiana,  vorrei citare queste parole,  tratte da una lettera scritta a Enrico Vallecchi,  del 26 dicembre 1948,  con cui D’Arzo definisce sinteticamente Il castello di Kafka:    la lettera che non viene mai,  la chiamata che si aspetta e non arriva.

La frase – dovrebbe venire in mente subito a tutti coloro che conoscono le opere dello scrittore reggiano – si potrebbe attribuire senza troppe forzature anche al suo Casa d’altri.
Ci sono, citati con essenzialità, gli stessi ingredienti.
Il tema della chiamata, prima di tutto ( non c’è dubbio che il prete si senta convocato a un appuntamento di importanza decisiva, che diventa ben presto esclusivo) che ha assunto nella narrativa novecentesca una portata allegorica non comune, specialmente con Kafka e nell’ambito della letteratura più vicina all’esistenzialismo.
E poi la lettera, uno degli strumenti e anche dei simboli della chiamata. Per alcuni aspetti succede, in Casa d’altri, anche se molto più in piccolo, come nei romanzi di Kafka. Gli indizi si moltiplicano, ma questo non fa che aumentare il turbamento, l’attesa, la confusione. C’è la lettera, appunto, che Zelinda porta e si affretta poco dopo a riprendere senza che il parroco possa leggerla, che irrita e accresce la sua irrazionale e ossessiva necessità di sapere, e molti altri minimi segni di intesa, offerte, indecisioni, che non fanno che infittire il mistero. Il prete si sente chiamato in causa con un’urgenza che supera la sua tentazione di tacere, di ritirarsi di fronte a un problema che sa di non poter risolvere; tutte le risposte che gli vengono alle labbra, infatti, sono tragicamente inutili: in realtà non fanno che ripresentare e confermare la domanda.
Il racconto si chiude su questo interrogativo. Come ha scritto Paolo Lagazzi, disponiamo solo della terribile domanda centrale, e di una storia che si chiude circolarmente intorno ad essa senza alcuna apertura ad altri spazi, ad altri sensi.
La domanda della Zelinda è della medesima specie di quelle terribili di cui parla Kafka nel passo che ho riportato dai suoi Diari: un puro segno.

 

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C’è un altro brevissimo racconto kafkiano,  Primo dolore,  dove la situazione vissuta dal protagonista è,  ancora,  la storia di una trascendenza che non si compie.  Questa volta la metafora è quella dell’infanzia.

Il protagonista,  un trapezista di abilità straordinaria,  ci viene presentato come un fanciullo,  sebbene questo non venga mai affermato direttamente.  Già il titolo sembra alludere al primo momento di un cammino di crescita:  il dolore di cui si parla è una raggiunta consapevolezza,  il primo grado di una cognizione che si realizza pian piano,  come il passaggio dall’infanzia all’età adulta.

Verso le ultime battute della parabola si precisa ai nostri occhi la figura del trapezista,  colta nel momento della sua primissima e parziale – ma decisiva –  trasformazione,  che si consuma nel breve e intenso dialogo con l’impresario del circo in cui si esibisce.  L’acrobata dapprima chiede il secondo trapezio,  presentato come oggetto insostituibile senza cui non sarà più possibile eseguire altri numeri,  poi,  nonostante le promesse sincere e affettuose dell’altro,  scoppia improvvisamente in lacrime con la stessa violenza ingenua e apparentemente irrazionale di una nevrosi infantile.  E’ molto interessante osservare come si comporta a questo punto l’impresario,  che,  per consolarlo,  lo accarezza e preme il viso contro il suo fino a rimanere bagnato dalle sue lacrime.  Il rapporto che si istituisce fra i due non risulta simile a quello esistente fra persone alla pari,  come due adulti,  ma ricorda molto di più quello che si verrebbe a creare fra un adulto e un bambino:  non a caso Kafka descrive la fronte dell’acrobata come liscia e infantile,  e le rughe che vi si formano,  ci dice,  sono le prime.

Il protagonista di Primo dolore è un individuo strano,  la cui originalità ci stupisce.  La sua storia è quella della sua diversità e della sua sofferenza,  derivata dall’impossibilità di rendere inattaccabile lo spazio prescelto per la sua ansia di perfezione:  l’alta volta del circo dove è situato il trapezio,  che vorrebbe essere,  come ha scritto giustamente Ferruccio Masini,  una costruita trascendenza.

Sono tante,  ovviamente,  le affinità fra l’illusione di un distacco assoluto,  che è la condizione del trapezista,  e la ricerca di un isolamento totale da parte di Arseni e Riccardo nell’Essi pensano ad altro.  E’ già stato visto come molti tratti delle personalità dei due amici siano caratterizzati da un candore fanciullesco:  è la rappresentazione di una sorta di verginità interiore poco prima di essere segnata e logorata dall’esperienza,  o nella fase in cui ciò sta avvenendo.  Alla condizione di mistica beatitudine,  subito infranta,  del trapezista,  ne corrisponde una,  praticamente identica e ugualmente crollata,  anche per i due protagonisti dell’Essi pensano:  Prima sì,  disse infine riposandosi.  – Perché non sapevamo neanche cosa c’era fuori di questa stanza o questa casa,  o solamente per sentito dire.  Le bestie e il violino ci bastavano e non abbiamo mai pensato che qualche cosa valesse come quelle o meritasse di farcele dimenticare,  di’ di no.  E se poi io ti mettevo una tortora o un coniglio sopra l’ottomana,  sul violino,  tu non dicevi ancora niente, i primi giorni,  ma io capivo lo stesso,  e forse anche meglio.  Perché ci sono cose che si capiscono subito,  fra noi due. –

Inoltre Riccardo e Arseni,  alla stessa maniera del trapezista,  si sforzano di proiettare l’isolamento lungo una direzione verticale,  in uno spazio trascendente.  Non a caso,  infatti,  appena ricevuto lo sfratto,  l’obiettivo principale delle loro ricerche è un appartamento situato il più in alto possibile:    – La cosa più importante è trovare la casa,  certamente,  magari a un quinto piano o anche più su. –

– Deve essere quasi impossibile più su,    obiettò il vecchio.  Si guardava nei vetri quasi ostilmente.

– Ma sarebbe bello no?-  s’ostinò ancora il ragazzo a voler quasi ignorare difficoltà numeri e logica.

Arseni distolse lo sguardo dai negozi.

– Certo che a un quinto piano sarebbe bello,    pensò poi ad alta voce.

– Sarebbe come vivere in un’altra terra,  specialmente d’inverno o quando piove. 

Per il trapezista,  così come per Arseni e Riccardo  – tutti individui la cui stranezza è definibile come una specie di diserzione dagli schemi d’abitudine nei quali ci radica il senso comune –  ogni residuo,  ogni frammento di comunicazione fra il mondo normale degli uomini e lo spazio trascendente a cui tendono ne impedisce l’assoluta giustificazione e realizzazione.

Nel Buon corsiero è naturalmente Lelio il luogo della contraddizione;  Lepic nell’ Osteria.  Sono entrambi incapaci di decidersi e la loro incapacità assume connotazioni di colpevolezza.  Tutti e due si affannano per dimostrare qualcosa:  Lelio,  nel discorso finale,  concitato e caotico,  ma pieno di superstizioso terrore;  Lepic con le rabbiose proteste rivolte allo sconosciuto,  che terminano con l’angosciata supplica di non parlare più.

Anche se non vi è, nella narrativa darziana,  quella dimensione di schiacciante trascendentalità che caratterizza quasi tutta la produzione di Kafka,  è possibile definire il dramma di Lelio e Lepic,  e in parte anche quello di Arseni e Riccardo,  con queste parole scritte da Ladislao Mittner per descrivere il travaglio dei personaggi kafkiani:  L’uomo escluso dalla vita che pur vorrebbe vivere…  si ribella all’istanza superiore ritenuta inumanamente dura o almeno si scoraggia e,  per giustificarsi del suo fallimento o della sua fiacchezza,  applica il proprio metro personale…  onde dimostrare,  a se stesso più che agli altri,  che l’istanza superiore è ingiusta.

La conclusione del saggio nella settimana successiva

 

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