“ Un Cristo[…]
E tu finalmente lo vedrai – con i tuoi stessi occhi-
Vero materialmente vero,
A parlarti col linguaggio di se stesso,
Anteriore ad ogni altro parlare:
Con le parole della carne”1
Pier Paolo Pasolini
In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ho pensato di recuperare questo mio articolo di diversi anni fa.
.
Correva l’anno 2014, dovevo scrivere il mio primo pezzo per il bimestrale “Marla. Cinema alla fine delle immagini” e io, che avevo alle spalle solo collaborazioni con riviste marginali, mi sentivo inadeguata a confronto con le grandi firme della critica cinematografica che facevano parte della redazione. Scelsi, allora, di occuparmi dell’importante mostra, che si teneva in quei giorni a Palazzo Strozzi a Firenze, dedicata a Pontormo e Rosso Fiorentino, per comprendere le ragioni dell’interesse di Pasolini verso questi due artisti, a partire dal mediometraggio La ricotta.
Portare a termine il compito che mi ero proposta, quella volta non fu affatto facile: innanzitutto, per recuperare la poetica di autori che non frequentavo ormai da moltissimo tempo, mi lanciai in uno studio matto e disperatissimo, poi le stesure si susseguirono una dopo l’altra, e tuttavia continuava a sfuggirmi – mi sembrava – il legame profondo tra i manieristi e lo scrittore corsaro.
L’illuminazione arrivò (cosa che mi succede talvolta ancora) dopo che avevo già inviato il pezzo. Così dovetti pregare Ivan, amico e direttore della rivista, di accettare quest’ultima versione, per quanto mi rendessi conto di apparire, proprio alla mia prima prova, davvero poco professionale. Come se non bastasse, dovette seguirne un’altra ancora (per quell’eterno labor limae che è la mia maledizione). E ancora oggi credo lui si ricordi di quel nostro inizio così traumatico, tanto che, per i numeri successivi, mi chiese in maniera tassativa di non mandargli che un’unica versione, qualsiasi essa fosse.
Insomma, ora eccolo qua. Lo ripropongo con il suo titolo originale, anche se fu pubblicato come Sono una forza del passato2.
Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della “maniera”, la grande mostra di Palazzo Strozzi visitabile fino al 20 luglio 2014, si presenta davvero come un’occasione importante non solo per conoscere i protagonisti di quella fortunata e controversa corrente pittorica che cominciò nel secondo decennio del Cinquecento, ma anche per attualizzare un mai sopito dibattito riguardo la rappresentazione in arte della realtà e il suo rapporto con il trascendente.
In primo luogo, per inquadrare la questione, diciamo che i Manieristi presero le mosse dalla polemica implicita con un interlocutore illustre, a loro antecedente di qualche anno, Leonardo da Vinci, che aveva portato a perfezione la prospettiva e affinato l’uso dello sfumato, riuscendo a integrare perfettamente le sue figure in uno spazio assai realistico per dati cromatici e atmosferici, attuando in questo modo una vera e propria rivoluzione. Con lui si era passati, insomma, da una visione antropocentrica ad una cosmocentrica
Il Manierismo, di cui Pontormo e Rosso Fiorentino furono i capostipiti, rifiutò la rivoluzione leonardesca e, sovvertendo il rapporto uomo- ambiente, tornò a proporre la figura umana in primo piano, fortemente disegnata come nei modelli quattrocenteschi di Botticelli, di Signorelli, o più indietro di Mantegna: la profondità venne annullata; svanirono i tonalismi e gli atmosferismi; la realtà venne prevalentemente rappresentata in forme distorte e innaturali.
Certo, rispetto alla felice stagione dell’Umanesimo, il clima era profondamente mutato, complici gli alterati equilibri geopolitici e socio-culturali, la crisi dell’eurocentrismo in seguito alla scoperta dell’America, la scissione all’interno del mondo cristiano operata dalla riforma luterana, ai quali si aggiunse infine il trauma del Sacco di Roma del 1527.
Di conseguenza, ora prevaleva una percezione drammatica dell’esistenza e anche la ricerca espressiva divenne problematica, tesa a rivelare una visione ambigua e non conciliata del reale, che si traduceva a livello iconografico con la linea spezzata o serpentinata, gli effetti cromatici surreali e la forzatura espressionistica
Ne la Madonna e quattro santi di Rosso Fiorentino, ad esempio, se i personaggi tornano prepotentemente allineati in prima fila, l’“estenuazione verticale dei corpi”3 (Barilli), la magrezza scheletrica di S. Gerolamo con quelle mani artigliate, le espressioni allucinate dei visi dagli occhi infossati e cerchiati comunicano un senso di disagio e inquietudine. Nonché una religiosità ben poco ortodossa. Infatti venne addirittura rifiutata dal committente perché, come raccontava lo stesso Vasari, “gli parvero […] tutti quei Santi, diavoli; avendo il Rosso costume, nelle sue bozze a olio, di fare certe arie crudeli e disperate”.
Se non proprio allucinate, di certo dolorosamente attonite sono le espressioni dei personaggi che, con aereo volteggio, si avviluppano con rimandi di gesti e colori nella Deposizione di Santa Felicita di Pontormo. Quasi privi di vita, sospesi fuori del tempo e in uno spazio in cui risulta assente l’elemento simbolico della croce (troppo in contrasto con la rappresentazione morbida e plastica di quei corpi), la loro tristezza così disperata non sembra cristiano dolore, come giustamente ha notato Briganti4, forse accogliendo la voce di un Pontormo eretico. Anche per questo su di lui si era abbattuta la pesante riprovazione del biografo aretino che motivava le scelte stilistiche del pittore quasi esclusivamente come il frutto di un temperamento bizzarro e stravagante (“non avendo fermezza nel cervello andava sempre nuove cose ghiribizzando”), saturnino e melanconico, oltretutto influenzato negativamente dalla maniera tedesca di Durer (“Or non sapeva il Puntormo che i tedeschi e’ fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana?”).
Seppure non lo manifestasse a chiare lettere, anche Vasari, però, doveva avere intuito il portato scandaloso profondo della pittura dei nostri due artisti, al di là delle scelte espressive e delle letture simbologiche: nelle loro opere, il dualismo tra mondo della trascendenza e quello della realtà, infatti, è tutto sbilanciato a favore di quest’ultima, come risulta evidente se si osserva il Cristo morto di Rosso (ora conservato al museo di Boston), con quel suo corpo massiccio, muscoloso, carnale e gigantesco che occupa tutto lo spazio del quadro relegando gli angeli nella semioscurità. La kenosis, lo “svuotamento”, la rinuncia di Cristo alle sue prerogative divine, diviene una celebrazione assoluta della sacralità della persona umana. Uno scandalo.
Scandalo che, a quattro secoli di distanza, uno sperimentatore, un antinaturalista per sua stessa ammissione, un empirista eretico, come Pier Paolo Pasolini, ha compreso benissimo tanto che, nel suo mediometraggio La ricotta (1963), lo ha riproposto con operazione analoga.
Così, proprio in apertura di film, si vede una troupe impegnata a girare due scene attraverso la modalità inconsueta di tableaux vivants, che riproducono meticolosamente, nei colori, nelle forme, nella disposizione, le celeberrime Deposizioni di Pontormo e di Rosso Fiorentino: “Il Pontormo, il Rosso Fiorentino dipingevano la crocifissione però, evidentemente nel loro fondo erano diabolici, erano miscredenti”5, afferma Pasolini in un suo intervento. La personalità maledetta dei due artisti si può iscrivere allora nell’ottica del suo alter ego, il regista interpretato da Orson Welles, che lui volle insistentemente come suo doppio caricaturale (“un me stesso andato al di là dicerti limiti e caricaturizzato”6).
Anche se l’identificazione risulta poi ambigua: da una parte, Welles ha la funzione dichiarata di esorcizzare lo snobismo intellettuale di Pasolini “uomo colto, estetizzante, cinico”; dall’altra, appare come suo sincero portavoce, soprattutto quando all’ottuso giornalista di “Teglie sera”, confessa il “suo profondo intimo arcaico cattolicesimo” e nel declamare i versi di una sua poesia, fa la sua più consapevole e disperata dichiarazione di poetica: “Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore”.
“È un’idea sbagliata – preciserà poi lo scrittore corsaro in un’intervista – quella che io sia un ‘modernista’. Anche i miei più seri sperimentalismi non prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana e europea”7. E lo si capisce benissimo ne La ricotta, appunto, anche se al tempo, il film subì un processo per vilipendio alla religione cattolica.
Venne ritenuto oltraggioso che l’autore avesse in modo irriverente turbato l’atmosfera divina delle rappresentazioni con un blasfemo twist suonato per sbaglio invece della musica di Scarlatti, con i richiami dell’aiuto-regista e i lazzi degli attori che interrompono la recitazione della Lauda di Jacopone da Todi, e, soprattutto, col Cristo che cade a terra suscitando un’ilarità sguaiata e contagiosa.
La blasfemia pasoliniana, tuttavia, è ben più complessa e profonda: il ladrone buono, infatti, è interpretato da una comparsa, Stracci, un sottoproletario romano dalla fame atavica che, per vari accidenti, non riesce a mangiare la sua ricotta. E anche se la sua vicenda viene narrata prevalentemente attraverso il registro della commedia e della comica, lui è il vero santo, anzi, è figura cristologica (la terza dopo Accattone e l’Ettore di Mamma Roma), la cui Passione autentica (in un bianco e nero rudimentale che contrasta polemicamente col cromatismo kitsch dei quadri viventi), fatta di solitudine (è lo zoom in avanti a mostrare un isolamento non di scelta, ma di condanna) e derisione, si conclude letteralmente sulla croce. Mentre è crocifisso, muore a causa dell’indigestione (ancora l’alternanza alto/basso) che si è procurata abbuffandosi spasmodicamente su istigazione della troupe divertita e irridente.
Solo con la sua morte, però, epica e tragica insieme, che irrompe scandalosamente nel mondo inautentico del set, Stracci riacquista la sua dignità di essere umano e gli opposti finalmente si riconciliano: l’alto e il basso, il sacro e il profano. L‘eresia cristiana di Pasolini è tutta qui: il sistema tolemaico sacrocentrico viene oltraggiato da un Cristo i cui attributi kenotici risultano così radicali da coincidere necessariamente con l’uomo, la cui santità, più antica di qualsiasi fede, è data dal suo amore per la vita.
“Povero Stracci, crepare! – dice Welles a suggello della vicenda – Non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo!”
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L’Umanesimo scandaloso di PPP
23 marzo 2022 di Elisa Bondavalli
“ Un Cristo[…]
E tu finalmente lo vedrai – con i tuoi stessi occhi-
Vero materialmente vero,
A parlarti col linguaggio di se stesso,
Anteriore ad ogni altro parlare:
Con le parole della carne”1
Pier Paolo Pasolini
In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ho pensato di recuperare questo mio articolo di diversi anni fa.
.
Correva l’anno 2014, dovevo scrivere il mio primo pezzo per il bimestrale “Marla. Cinema alla fine delle immagini” e io, che avevo alle spalle solo collaborazioni con riviste marginali, mi sentivo inadeguata a confronto con le grandi firme della critica cinematografica che facevano parte della redazione. Scelsi, allora, di occuparmi dell’importante mostra, che si teneva in quei giorni a Palazzo Strozzi a Firenze, dedicata a Pontormo e Rosso Fiorentino, per comprendere le ragioni dell’interesse di Pasolini verso questi due artisti, a partire dal mediometraggio La ricotta.
Portare a termine il compito che mi ero proposta, quella volta non fu affatto facile: innanzitutto, per recuperare la poetica di autori che non frequentavo ormai da moltissimo tempo, mi lanciai in uno studio matto e disperatissimo, poi le stesure si susseguirono una dopo l’altra, e tuttavia continuava a sfuggirmi – mi sembrava – il legame profondo tra i manieristi e lo scrittore corsaro.
L’illuminazione arrivò (cosa che mi succede talvolta ancora) dopo che avevo già inviato il pezzo. Così dovetti pregare Ivan, amico e direttore della rivista, di accettare quest’ultima versione, per quanto mi rendessi conto di apparire, proprio alla mia prima prova, davvero poco professionale. Come se non bastasse, dovette seguirne un’altra ancora (per quell’eterno labor limae che è la mia maledizione). E ancora oggi credo lui si ricordi di quel nostro inizio così traumatico, tanto che, per i numeri successivi, mi chiese in maniera tassativa di non mandargli che un’unica versione, qualsiasi essa fosse.
Insomma, ora eccolo qua. Lo ripropongo con il suo titolo originale, anche se fu pubblicato come Sono una forza del passato2.
Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della “maniera”, la grande mostra di Palazzo Strozzi visitabile fino al 20 luglio 2014, si presenta davvero come un’occasione importante non solo per conoscere i protagonisti di quella fortunata e controversa corrente pittorica che cominciò nel secondo decennio del Cinquecento, ma anche per attualizzare un mai sopito dibattito riguardo la rappresentazione in arte della realtà e il suo rapporto con il trascendente.
In primo luogo, per inquadrare la questione, diciamo che i Manieristi presero le mosse dalla polemica implicita con un interlocutore illustre, a loro antecedente di qualche anno, Leonardo da Vinci, che aveva portato a perfezione la prospettiva e affinato l’uso dello sfumato, riuscendo a integrare perfettamente le sue figure in uno spazio assai realistico per dati cromatici e atmosferici, attuando in questo modo una vera e propria rivoluzione. Con lui si era passati, insomma, da una visione antropocentrica ad una cosmocentrica
Il Manierismo, di cui Pontormo e Rosso Fiorentino furono i capostipiti, rifiutò la rivoluzione leonardesca e, sovvertendo il rapporto uomo- ambiente, tornò a proporre la figura umana in primo piano, fortemente disegnata come nei modelli quattrocenteschi di Botticelli, di Signorelli, o più indietro di Mantegna: la profondità venne annullata; svanirono i tonalismi e gli atmosferismi; la realtà venne prevalentemente rappresentata in forme distorte e innaturali.
Certo, rispetto alla felice stagione dell’Umanesimo, il clima era profondamente mutato, complici gli alterati equilibri geopolitici e socio-culturali, la crisi dell’eurocentrismo in seguito alla scoperta dell’America, la scissione all’interno del mondo cristiano operata dalla riforma luterana, ai quali si aggiunse infine il trauma del Sacco di Roma del 1527.
Di conseguenza, ora prevaleva una percezione drammatica dell’esistenza e anche la ricerca espressiva divenne problematica, tesa a rivelare una visione ambigua e non conciliata del reale, che si traduceva a livello iconografico con la linea spezzata o serpentinata, gli effetti cromatici surreali e la forzatura espressionistica
Ne la Madonna e quattro santi di Rosso Fiorentino, ad esempio, se i personaggi tornano prepotentemente allineati in prima fila, l’“estenuazione verticale dei corpi”3 (Barilli), la magrezza scheletrica di S. Gerolamo con quelle mani artigliate, le espressioni allucinate dei visi dagli occhi infossati e cerchiati comunicano un senso di disagio e inquietudine. Nonché una religiosità ben poco ortodossa. Infatti venne addirittura rifiutata dal committente perché, come raccontava lo stesso Vasari, “gli parvero […] tutti quei Santi, diavoli; avendo il Rosso costume, nelle sue bozze a olio, di fare certe arie crudeli e disperate”.
Se non proprio allucinate, di certo dolorosamente attonite sono le espressioni dei personaggi che, con aereo volteggio, si avviluppano con rimandi di gesti e colori nella Deposizione di Santa Felicita di Pontormo. Quasi privi di vita, sospesi fuori del tempo e in uno spazio in cui risulta assente l’elemento simbolico della croce (troppo in contrasto con la rappresentazione morbida e plastica di quei corpi), la loro tristezza così disperata non sembra cristiano dolore, come giustamente ha notato Briganti4, forse accogliendo la voce di un Pontormo eretico. Anche per questo su di lui si era abbattuta la pesante riprovazione del biografo aretino che motivava le scelte stilistiche del pittore quasi esclusivamente come il frutto di un temperamento bizzarro e stravagante (“non avendo fermezza nel cervello andava sempre nuove cose ghiribizzando”), saturnino e melanconico, oltretutto influenzato negativamente dalla maniera tedesca di Durer (“Or non sapeva il Puntormo che i tedeschi e’ fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana?”).
Seppure non lo manifestasse a chiare lettere, anche Vasari, però, doveva avere intuito il portato scandaloso profondo della pittura dei nostri due artisti, al di là delle scelte espressive e delle letture simbologiche: nelle loro opere, il dualismo tra mondo della trascendenza e quello della realtà, infatti, è tutto sbilanciato a favore di quest’ultima, come risulta evidente se si osserva il Cristo morto di Rosso (ora conservato al museo di Boston), con quel suo corpo massiccio, muscoloso, carnale e gigantesco che occupa tutto lo spazio del quadro relegando gli angeli nella semioscurità. La kenosis, lo “svuotamento”, la rinuncia di Cristo alle sue prerogative divine, diviene una celebrazione assoluta della sacralità della persona umana. Uno scandalo.
Scandalo che, a quattro secoli di distanza, uno sperimentatore, un antinaturalista per sua stessa ammissione, un empirista eretico, come Pier Paolo Pasolini, ha compreso benissimo tanto che, nel suo mediometraggio La ricotta (1963), lo ha riproposto con operazione analoga.
Così, proprio in apertura di film, si vede una troupe impegnata a girare due scene attraverso la modalità inconsueta di tableaux vivants, che riproducono meticolosamente, nei colori, nelle forme, nella disposizione, le celeberrime Deposizioni di Pontormo e di Rosso Fiorentino: “Il Pontormo, il Rosso Fiorentino dipingevano la crocifissione però, evidentemente nel loro fondo erano diabolici, erano miscredenti”5, afferma Pasolini in un suo intervento. La personalità maledetta dei due artisti si può iscrivere allora nell’ottica del suo alter ego, il regista interpretato da Orson Welles, che lui volle insistentemente come suo doppio caricaturale (“un me stesso andato al di là dicerti limiti e caricaturizzato”6).
Anche se l’identificazione risulta poi ambigua: da una parte, Welles ha la funzione dichiarata di esorcizzare lo snobismo intellettuale di Pasolini “uomo colto, estetizzante, cinico”; dall’altra, appare come suo sincero portavoce, soprattutto quando all’ottuso giornalista di “Teglie sera”, confessa il “suo profondo intimo arcaico cattolicesimo” e nel declamare i versi di una sua poesia, fa la sua più consapevole e disperata dichiarazione di poetica: “Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore”.
“È un’idea sbagliata – preciserà poi lo scrittore corsaro in un’intervista – quella che io sia un ‘modernista’. Anche i miei più seri sperimentalismi non prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana e europea”7. E lo si capisce benissimo ne La ricotta, appunto, anche se al tempo, il film subì un processo per vilipendio alla religione cattolica.
Venne ritenuto oltraggioso che l’autore avesse in modo irriverente turbato l’atmosfera divina delle rappresentazioni con un blasfemo twist suonato per sbaglio invece della musica di Scarlatti, con i richiami dell’aiuto-regista e i lazzi degli attori che interrompono la recitazione della Lauda di Jacopone da Todi, e, soprattutto, col Cristo che cade a terra suscitando un’ilarità sguaiata e contagiosa.
La blasfemia pasoliniana, tuttavia, è ben più complessa e profonda: il ladrone buono, infatti, è interpretato da una comparsa, Stracci, un sottoproletario romano dalla fame atavica che, per vari accidenti, non riesce a mangiare la sua ricotta. E anche se la sua vicenda viene narrata prevalentemente attraverso il registro della commedia e della comica, lui è il vero santo, anzi, è figura cristologica (la terza dopo Accattone e l’Ettore di Mamma Roma), la cui Passione autentica (in un bianco e nero rudimentale che contrasta polemicamente col cromatismo kitsch dei quadri viventi), fatta di solitudine (è lo zoom in avanti a mostrare un isolamento non di scelta, ma di condanna) e derisione, si conclude letteralmente sulla croce. Mentre è crocifisso, muore a causa dell’indigestione (ancora l’alternanza alto/basso) che si è procurata abbuffandosi spasmodicamente su istigazione della troupe divertita e irridente.
Solo con la sua morte, però, epica e tragica insieme, che irrompe scandalosamente nel mondo inautentico del set, Stracci riacquista la sua dignità di essere umano e gli opposti finalmente si riconciliano: l’alto e il basso, il sacro e il profano. L‘eresia cristiana di Pasolini è tutta qui: il sistema tolemaico sacrocentrico viene oltraggiato da un Cristo i cui attributi kenotici risultano così radicali da coincidere necessariamente con l’uomo, la cui santità, più antica di qualsiasi fede, è data dal suo amore per la vita.
“Povero Stracci, crepare! – dice Welles a suggello della vicenda – Non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo!”
1 Pasolini Pier Paolo, Bestemmia (Tutte le poesie), vol. 2 Garzanti, 1993
2Bondavalli Elisa, “Sono una forza del passato”, “ Marla. Cinema alla fine delle immagini” , n.1, aprile/maggio 2014.
3 Barilli Renato, Maniera moderna e Manierismo, Feltrinelli, 2004, pag. 56
4 Briganti Giuliano, la Maniera italiana, Roma, Editori Riuniti, 1961
5 AA.VV, L’arte del Romanino e il nostro tempo, Brescia, Grafo, 1976
6 Pasolini Pier Paolo, “Una discussione del ’64”, ora in Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, 1977, pag.100
7 Pasolini Pier Paolo, “Vie nuove” n.42, 18 ottobre 1962
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