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Archive for marzo 2014

 

La metafora dell’infanzia non è che uno dei modi con cui D’Arzo costruisce la propria narrativa. Insieme ad essa lo scrittore ne inventa altre realizzando come della costanti variazioni sul tema:  l’eterna reiterazione di una situazione di cui cambiano i volti.

Questo è senz’altro vero per quanto riguarda il gruppo di opere a cui ho fatto riferimento,  Buon corsiero,  Essi pensano ad altro e Osteria, una trilogia in cui il fattore di affinità non è l’essere l’uno la continuazione dell’altro ma, in fondo, la ripetizione. L’uso delle metafore è presente in essi mediante sovrapposizioni: ogni racconto, cioè,  le può comprendere integrandole o lasciando che una prevalga sulle altre.

Abbiamo visto come in questi libri, al parametro infanzia corrisponda tutta una gradazione di partecipazione dei personaggi,  più o meno resistenti alla logica di salvezza che il comportamento infantile reca con sé,  ma anche che quasi nessuno di essi,  ad eccezione di pochi,  come Lauretta,  la cui posizione è particolarissima,  riesce ad ottenere appieno il riscatto  (Lauretta è salva fin dall’inizio);  la metafora, cioè, è quasi sempre figurazione di una tensione,  di uno sforzo che rimane tale.

Oltre a quella dell’infanzia,  che più avanti riprenderò,  esiste un’altra metafora veramente caratteristica dell’universo darziano,  spiccatamente evidente nell’Essi pensano ad altro  (ma presente anche nelle altre due opere):  la chiamerei metafora della rarefazione della materia.

Occorre,  per comprenderne il meccanismo,  rivedere da vicino alcuni momenti di questi racconti.

Nell’Essi pensano ad altro lo spazio si presenta il più delle volte come inconsistenza e trasparenza,  come la realtà di leggerezza e levità di certi luoghi descritti e come,  soprattutto,  il fisico esile di Riccardo. Egli non può in nessun modo intervenire sulla realtà che lo circonda, il suo corpo, quasi scheletrico  e  come senza peso e gravità, è la rappresentazione di un’assenza più vasta che coinvolge tutte le potenzialità della persona. Ma in questo libro la metafora della leggerezza si arricchisce e si complica.

 Questa condizione (l’essere senza radici)  diventa ancora più spettrale e assurda nel momento in cui il personaggio,  modellato in tale maniera,  mostra di ignorare la sua menomazione cercando di entrare nel mondo degli altri uomini,  con le loro consuetudini,  i loro riti comuni. Prendendo a prestito una definizione della critica kafkiana,  e incontrandomi con alcuni temi cari allo scrittore praghese,  chiamerei questo tentativo di forzare una situazione fingendosi o credendosi diversi da ciò che si è,  lo stato del domandare. Esso,  nel romanzo in questione,  non è che lo sviluppo,  assurdo,  della metafora:  il contrappunto ironico dell’immaterialità.

 

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di Andrea Chesi

Anche nel romanzo Essi pensano ad altro il mito della fanciullezza torna con la consueta carica metaforica.

C’è, nella personalità dei due protagonisti, soprattutto in quella di Arseni, qualcosa di irrimediabilmente infantile: ”Arseni non rispose al ragazzo una parola, ma s’accontentò di atteggiare le sue labbra a mestolo, incerto forse e un poco rincresciuto e quasi offeso. Egli aveva un modo infantile e primordiale di manifestare i suoi sentimenti più marcati, con implacabile serenità e innocenza, specialmente la paura era in lui qualcosa di grosso, di corposo, come in un bimbo sano e senza sogni.”

Si può dire con più precisione, che il modo con cui il vecchio e il ragazzo cercano l’isolamento passa attraverso un processo di eliminazione di attributi – vincolanti, rigorosi- caratteristici della vita dell’adulto.

È significativo che la ricerca dei due non si configuri nei termini di una lotta, di una battaglia da condurre contro qualcuno, ma soltanto come desiderio di silenzioso allontanamento. Non c’è spazio per atteggiamenti arroganti, c’è soltanto l’imperativo del distacco, sentito come l’unico possibile modo di essere.

Arseni li guardava attorno a sé, senza collera o stupore… pieno di quella sua incomprensibile innocenza che sconcertava o esasperava tutti… ma l’astio cresceva in loro e li prendeva per quella serenità del vecchio, quasi d’altri mondi o cieli che impediva di giungere fino a lui”.

Questo modo d’essere, D’Arzo ha creduto opportuno presentarlo con caratteristiche simili a quelle di una personalità infantile, perché l’estraneità del bambino al mondo delle convenzioni non è trasgressione o provocazione, ma assoluta spontaneità.

C’era adesso qualche cosa di vagamente infantile nella stanza, e come un po’ d’odore di lontana infanzia dissepolta da un mucchio di disegni o di ritratti, o un ricordo anzi d’antico innocente giuoco, quasi d’angeli, che ora si volesse ripetere per scherzo. Riccardo e il vecchio, infatti, ascoltavano in camicia accanto all’uscio con una cauta complicità di ragazzo sveglio la notte di befana.”

Ma anche nel caso di Arseni e Riccardo nessuna trascendenza può compiersi (trascendenza perseguita anche fisicamente, in un appartamento situato molto in alto “…magari a un quinto piano e anche più su.”): l’esistenza concreta e “terrena” degli altri uomini pone dolorosi ostacoli alla loro ricerca che risulta perciò sfasata, sbagliata, impossibile.

Per quanto riguarda l’Osteria i riferimenti sono altrettanto evidenti.

Assai frequentemente D’Arzo definisce “ vecchi bambini” gli uomini di Sivilek. La metafora dell’infanzia coinvolge quasi tutto il gruppo umano del racconto, ma, come al solito, in maniera parziale. È presente un principio di slancio, di affrancamento, nelle esistenze innocentemente e lievemente bestiali dei partecipanti alla festa, slancio che rimane però come un presentimento o un ricordo, come una luce morta.

L’innocenza assoluta e invincibile della bambina Maghit è invece un punto d’arrivo, simile alla dimensione di pura libertà che è la realtà del Funambolo nel Buon corsiero. 

Viene abbastanza spontaneo leggere sinotticamente Buon corsiero e Osteria.

Accanto al Funambolo-diavolo del primo, si pone l’uomo misterioso e senza nome venuto a turbare la malinconica allegria dei pescatori, nell’Osteria. Maghit, subito fiduciosamente attratta dall’uomo, ripete, evidentemente, il personaggio di Lauretta. Lepic è Lelio, scettico ma, in fondo, superstizioso, fortemente infastidito e irritato dalla familiarità con cui il nuovo venuto riesce a parlare e a giocare con la bambina. La sua irritazione è esagerata, sfasata rispetto alla placida serenità d’altri mondi dell’uomo: “ ma parla di fiori azzurri e gialli”  gridò poi… “di fiori gialli e verdi, mai visti io!”.

Infine l’Osteria si conclude, come il Buon corsiero, con una scena di caccia all’uomo; Lepic e lo staffiere, diffidenti e ostili, all’inseguimento di un altro angelico o diabolico Funambolo.

Seguiranno le altre parti del saggio nelle settimane successive.

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Premessa

di Andrea Chesi

Pubblico a rate questo breve saggio – con pochissime modifiche – che scrissi parecchi anni fa. Era la scintilla che avrebbe dovuto innescare un discorso critico sui primi libri di Silvio D’Arzo. Ne parlai con il professore che avrebbe dovuto seguirmi nella stesura della tesi, che inizialmente parve apprezzare. Quando gli sottoposi il resto, però, si raffreddò parecchio,  giudicando la mia interpretazione un tantino forzata. Mi invitò a cambiare indicandomi altre strade, in particolare mi suggerì di occuparmi dei saggi critici darziani,  ciò che  in effetti poi feci (con scarso entusiasmo). Ho sottoposto quella primitiva scintilla – rimasta per anni in fondo a un cassetto – a qualche darziano che – bontà sua – mi invita a condividerla con i lettori.  Lo faccio adesso sperando di offrire un contributo non effimero.

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