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Archive for the ‘letture critiche’ Category

Un Cristo[…]

E tu finalmente lo vedrai – con i tuoi stessi occhi-

Vero materialmente vero,

A parlarti col linguaggio di se stesso,

Anteriore ad ogni altro parlare:

Con le parole della carne”1

Pier Paolo Pasolini

In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, ho pensato di recuperare questo mio articolo di diversi anni fa.

.Cortometraggio La ricotta del regista Pier Paolo Pasolini

Correva l’anno 2014, dovevo scrivere il mio primo pezzo per il bimestrale “Marla. Cinema alla fine delle immagini” e io, che avevo alle spalle solo collaborazioni con riviste marginali, mi sentivo inadeguata a confronto con le grandi firme della critica cinematografica che facevano parte della redazione. Scelsi, allora, di occuparmi dell’importante mostra, che si teneva in quei giorni a Palazzo Strozzi a Firenze, dedicata a Pontormo e Rosso Fiorentino, per comprendere le ragioni dell’interesse di Pasolini verso questi due artisti, a partire dal mediometraggio La ricotta.

Portare a termine il compito che mi ero proposta, quella volta non fu affatto facile: innanzitutto, per recuperare la poetica di autori che non frequentavo ormai da moltissimo tempo, mi lanciai in uno studio matto e disperatissimo, poi le stesure si susseguirono una dopo l’altra,  e tuttavia continuava a sfuggirmi – mi sembrava – il legame profondo tra i manieristi e lo scrittore corsaro.

L’illuminazione arrivò (cosa che mi succede talvolta ancora) dopo che avevo già inviato il pezzo. Così dovetti pregare Ivan, amico e direttore della rivista, di accettare quest’ultima versione, per quanto mi rendessi conto di apparire, proprio alla mia prima prova, davvero poco professionale. Come se non bastasse, dovette seguirne un’altra ancora (per quell’eterno labor limae che è la mia maledizione). E ancora oggi credo lui si ricordi di quel nostro inizio così traumatico, tanto che, per i numeri successivi, mi chiese in maniera tassativa di non mandargli che un’unica versione, qualsiasi essa fosse.  

Insomma, ora eccolo qua. Lo ripropongo con il suo titolo originale, anche se fu pubblicato come Sono una forza del passato2

Pontormo e Rosso Fiorentino. Divergenti vie della “maniera”, la grande mostra di Palazzo Strozzi visitabile fino al 20 luglio 2014, si presenta davvero come un’occasione importante non solo per conoscere i protagonisti di quella fortunata e controversa corrente pittorica che cominciò nel secondo decennio del Cinquecento, ma anche per attualizzare un mai sopito dibattito riguardo la rappresentazione in arte della realtà e il suo rapporto con il trascendente.

In primo luogo, per inquadrare la questione, diciamo che i Manieristi presero le mosse dalla polemica implicita con un interlocutore illustre, a loro antecedente di qualche anno, Leonardo da Vinci, che aveva portato a perfezione la prospettiva e affinato l’uso dello sfumato, riuscendo a integrare perfettamente le sue figure in uno spazio assai realistico per dati cromatici e atmosferici, attuando in questo modo una vera e propria rivoluzione. Con lui si era passati, insomma, da una visione antropocentrica ad una cosmocentrica

Il Manierismo, di cui Pontormo e Rosso Fiorentino furono i capostipiti, rifiutò la rivoluzione leonardesca e, sovvertendo il rapporto uomo- ambiente, tornò a proporre la figura umana in primo piano, fortemente disegnata come nei modelli quattrocenteschi di Botticelli, di Signorelli, o più indietro di Mantegna: la profondità venne annullata; svanirono i tonalismi e gli atmosferismi; la realtà venne prevalentemente rappresentata in forme distorte e innaturali.Pala dello Spedalingo - Wikipedia

Certo, rispetto alla felice stagione dell’Umanesimo, il clima era profondamente mutato, complici gli alterati equilibri geopolitici e socio-culturali, la crisi dell’eurocentrismo in seguito alla scoperta dell’America, la scissione all’interno del mondo cristiano operata dalla riforma luterana, ai quali si aggiunse infine il trauma del Sacco di Roma del 1527.

Di conseguenza, ora prevaleva una percezione drammatica dell’esistenza e anche la ricerca espressiva divenne problematica, tesa a rivelare una visione ambigua e non conciliata del reale, che si traduceva a livello iconografico con la linea spezzata o serpentinata, gli effetti cromatici surreali e la forzatura espressionistica

Ne la Madonna e quattro santi di Rosso Fiorentino, ad esempio, se i personaggi tornano prepotentemente allineati in prima fila, l’“estenuazione verticale dei corpi”3 (Barilli), la magrezza scheletrica di S. Gerolamo con quelle mani artigliate, le espressioni allucinate dei visi dagli occhi infossati e cerchiati comunicano un senso di disagio e inquietudine. Nonché una religiosità ben poco ortodossa. Infatti venne addirittura rifiutata dal committente perché, come raccontava lo stesso Vasari, “gli parvero […] tutti quei Santi, diavoli; avendo il Rosso costume, nelle sue bozze a olio, di fare certe arie crudeli e disperate”.

Se non proprio allucinate, di certo dolorosamente attonite sono le espressioni dei personaggi che, con aereo volteggio, si avviluppano con rimandi di gesti e colori nella Deposizione di Santa Felicita di Pontormo. Quasi privi di vita, sospesi fuori del tempo e in uno spazio in cui risulta assente l’elemento simbolico della croce (troppo in contrasto con la rappresentazione morbida e plastica di quei corpi), la loro tristezza così disperata non sembra cristiano dolore, come giustamente ha notato Briganti4, forse accogliendo la voce di un Pontormo eretico. Anche per questo su di lui si era abbattuta la pesante riprovazione del biografo aretino che motivava le scelte stilistiche del pittore quasi esclusivamente come il frutto di un temperamento bizzarro e stravagante (“non avendo fermezza nel cervello andava sempre nuove cose ghiribizzando”), saturnino e melanconico, oltretutto influenzato negativamente dalla maniera tedesca di Durer (“Or non sapeva il Puntormo che i tedeschi e’ fiaminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana?”).Deposizione (Pontormo) - Wikipedia

Seppure non lo manifestasse a chiare lettere, anche Vasari, però, doveva avere intuito il portato scandaloso profondo della pittura dei nostri due artisti, al di là delle scelte espressive e delle letture simbologiche: nelle loro opere, il dualismo tra mondo della trascendenza e quello della realtà, infatti, è tutto sbilanciato a favore di quest’ultima, come risulta evidente se si osserva il Cristo morto di Rosso (ora conservato al museo di Boston), con quel suo corpo massiccio, muscoloso, carnale e gigantesco che occupa tutto lo spazio del quadro relegando gli angeli nella semioscurità. La kenosis, lo “svuotamento”, la rinuncia di Cristo alle sue prerogative divine, diviene una celebrazione assoluta della sacralità della persona umana. Uno scandalo.

Scandalo che, a quattro secoli di distanza, uno sperimentatore, un antinaturalista per sua stessa ammissione, un empirista eretico, come Pier Paolo Pasolini, ha compreso benissimo tanto che, nel suo mediometraggio La ricotta (1963), lo ha riproposto con operazione analoga.Cristo morto compianto da quattro angeli - Wikipedia

Così, proprio in apertura di film, si vede una troupe impegnata a girare due scene attraverso la modalità inconsueta di tableaux vivants, che riproducono meticolosamente, nei colori, nelle forme, nella disposizione, le celeberrime Deposizioni di Pontormo e di Rosso Fiorentino: “Il Pontormo, il Rosso Fiorentino dipingevano la crocifissione però, evidentemente nel loro fondo erano diabolici, erano miscredenti”5, afferma Pasolini in un suo intervento. La personalità maledetta dei due artisti si può iscrivere allora nell’ottica del suo alter ego, il regista interpretato da Orson Welles, che lui volle insistentemente come suo doppio caricaturale (“un me stesso andato al di là dicerti limiti e caricaturizzato”6).La ricotta (episodio di Rogopag)" di Pier Paolo Pasolini - NonSoloCinema

Anche se l’identificazione risulta poi ambigua: da una parte, Welles ha la funzione dichiarata di esorcizzare lo snobismo intellettuale di Pasolini “uomo colto, estetizzante, cinico”; dall’altra, appare come suo sincero portavoce, soprattutto quando all’ottuso giornalista di “Teglie sera”, confessa il “suo profondo intimo arcaico cattolicesimo” e nel declamare i versi di una sua poesia, fa la sua più consapevole e disperata dichiarazione di poetica: “Io sono una forza del passato. Solo nella tradizione è il mio amore”.
“È un’idea sbagliata – preciserà poi lo scrittore corsaro in un’intervista – quella che io sia un ‘modernista’. Anche i miei più seri sperimentalismi non prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana e europea”7. E lo si capisce benissimo ne La ricotta, appunto, anche se al tempo, il film subì un processo per vilipendio alla religione cattolica.

Venne ritenuto oltraggioso che l’autore avesse in modo irriverente turbato l’atmosfera divina delle rappresentazioni con un blasfemo twist suonato per sbaglio invece della musica di Scarlatti, con i richiami dell’aiuto-regista e i lazzi degli attori che interrompono la recitazione della Lauda di Jacopone da Todi, e, soprattutto, col Cristo che cade a terra suscitando un’ilarità sguaiata e contagiosa.

La blasfemia pasoliniana, tuttavia, è ben più complessa e profonda: il ladrone buono, infatti, è interpretato da una comparsa, Stracci, un sottoproletario romano dalla fame atavica che, per vari accidenti, non riesce a mangiare la sua ricotta. E anche se la sua vicenda viene narrata prevalentemente attraverso il registro della commedia e della comica, lui è il vero santo, anzi, è figura cristologica (la terza dopo Accattone e l’Ettore di Mamma Roma), la cui Passione autentica (in un bianco e nero rudimentale che contrasta polemicamente col cromatismo kitsch dei quadri viventi), fatta di solitudine (è lo zoom in avanti a mostrare un isolamento non di scelta, ma di condanna) e derisione, si conclude letteralmente sulla croce. Mentre è crocifisso, muore a causa dell’indigestione (ancora l’alternanza alto/basso) che si è procurata abbuffandosi spasmodicamente su istigazione della troupe divertita e irridente.
Stracci sulla croce. Scene estratte dal film la Ricotta di Pier Paolo... | Download Scientific DiagramSolo con la sua morte, però, epica e tragica insieme, che irrompe scandalosamente nel mondo inautentico del set, Stracci riacquista la sua dignità di essere umano e gli opposti finalmente si riconciliano: l’alto e il basso, il sacro e il profano. Leresia cristiana di Pasolini è tutta qui: il sistema tolemaico sacrocentrico viene oltraggiato da un Cristo i cui attributi kenotici risultano così radicali da coincidere necessariamente con l’uomo, la cui santità, più antica di qualsiasi fede, è data dal suo amore per la vita.

Povero Stracci, crepare! dice Welles a suggello della vicenda Non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo!

1 Pasolini Pier Paolo, Bestemmia (Tutte le poesie), vol. 2 Garzanti, 1993

2Bondavalli Elisa, “Sono una forza del passato”, “ Marla. Cinema alla fine delle immagini” , n.1, aprile/maggio 2014.

3 Barilli Renato, Maniera moderna e Manierismo, Feltrinelli, 2004, pag. 56

4 Briganti Giuliano, la Maniera italiana, Roma, Editori Riuniti, 1961

5 AA.VV, L’arte del Romanino e il nostro tempo, Brescia, Grafo, 1976

6 Pasolini Pier Paolo, “Una discussione del ’64”, ora in Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, 1977, pag.100

7 Pasolini Pier Paolo, “Vie nuove” n.42, 18 ottobre 1962

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nient’altro che la verità

Questa volta la sfida era impari: nientemeno che il racconto che dà il titolo alla rivista… Una sfida impari quanto paralizzante… Alla fine è uscito Văn: qualsiasi cosa sia, lo dedico a tutti i Malpelo di oggi e a coloro che, per quanto incompresi, non cessano di esercitare il coraggio civile.

UNA STORIA VERA

Introduzione del direttore Demetrio Salvi

C’è lo zampino di Verga, questa volta. Una presenza insistente, ineliminabile.

E un’ovvia ridondanza dei numeri, come se dicessero qualcosa, proprio al di là dell’insondabile mistero della loro forma: il 2022 è pieno di ricorrenze letterarie e non solo, inutile dirlo.

Alcune ci sono particolarmente care perché indicano, ripetono, ci sollecitano a riflettere, a tornare sui nostri passi: in questo modo, hanno un che di terapeutico, di iterazione capace di sistemare, di mettere a posto le cose quasi per difenderci dall’insensatezza del tutto.

Cento anni fa moriva l’ultraottantenne Verga. Ma moriva anche Proust, di molto più giovane.

Esce L’Ulisse, di Joyce, in concomitanza con il suo quarantesimo compleanno.

Nascono, tra gli altri, Fenoglio, Pasolini, Kerouack e, ahimé, è anche la data della marcia su Roma.

Non è un gioco particolarmente interessante ma, questa volta, è un omaggio dovuto tenendo in considerazione il nome che porta questa rivista: Malpelo.

Come al solito, poi, ci saranno motivazioni più intime e misteriose — magari anche “volgari” — che hanno spinto verso questo tema: qualche rigurgito dovuto al visionamento ossessivo di una serie televisiva (Better Call Saul) può, forse, dire qualcosa: il gergo degli avvocati avrà influenzato una scelta (nient’altro che la verità) che, in qualche modo, resta prevedibile ma chiarifica quanto sia potente, nel nostro immaginario, la presenza di un televisivo che, in taluni casi, mette in gioco intelligenze raffinate, quelle di sceneggiatori abili a piegare la nostra volontà e a immergere il mondo del nostro immaginario in una narrativa che ci avvolge tanto da rendere “vita” ciò che è unicamente “visione”. Diventa inquietante confondere i personaggi di una serie quali realtà fisiche che, normalmente, pratichiamo, “viviamo” appunto. Sfaldano il nostro senso di realtà, lo piegano e lo modellano fino a farci presupporre che quel mondo fantastico è capace di penetrare il reale: la verità diventa, allora, un tutt’uno con questo universo fantasmatico che non riusciamo più a limitare, che proprio deborda nel quotidiano: il sogno, insomma, non ha più uno spazio specifico, non rientra più nell’alveo del sonno. I personaggi diventano fisicamente vivi: ci concediamo l’eventualità d’incontrarli per strada, al supermercato, in fila alla posta. La verità diventa, così, questo spazio ampio dove si mescolano corpi di differente qualità materiale. E i racconti e le storie che qui troverete stanno proprio a testimoniare che non ci sono limiti tra reale e immaginario, che i nostri cinque sensi sono troppo pochi per cogliere la densità di uno spazio che non può certo limitarsi alla misera esistenza di ciò che, semplicemente e banalmente, vediamo o sentiamo o tocchiamo… Nient’altro che la verità affronta questo mondo più affascinante, meno semplice, più complesso che viviamo senza averne piena coscienza, inutile dirlo.

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I Vangeli laici di Pier Paolo Pasolini, José Saramago, Giovanni Columbu

Elisa Bondavalli per “Marla. Cinema alla fine delle immagini” n.6 giugno- agosto 2015.

Perché intellettuali non solo laici ma addirittura dichiaratamente atei, a più riprese nel corso del tempo, hanno sentito l’esigenza di confrontarsi col testo evangelico? Quale il valore sconvolgente del messaggio cristiano? Quale la sua attualità? 

Sicuramente la Vita di Gesù (1863) di Ernest Renan, che esaltava l’umana grandezza di Cristo a scapito della natura divina, è stata la prima scandalosa risposta.

Un secolo dopo, Pier Paolo Pasolini, proprio quando si accinge a realizzare il suo Vangelo secondo Matteo che la Pro Civitate Christiana, nell’ottobre del 1962, mentre sta aspettando l’arrivo di papa Giovanni XXIII (a cui poi il film sarà dedicato), con “delizioso-diabolico calcolo” gli fa trovare sul comodino della sua stanza ad Assisi, confesserà la sua esaltazione per una “natura umana così alta, rigorosa e ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità”1.

Un’umanità che rimanda alla condizione intima, poetica e culturale dell’autore.

Il “dolceardente” Gesù pasoliniano (interpretato dallo studente spagnolo Enrique Irazoqui) è infatti speculare al vissuto politico e personale dell’autore (la madre nel ruolo di Maria, gli amici intellettuali e scrittori in quello degli apostoli non sono scelte neutrali), al suo insopprimibile bisogno di espiazione e volontà di sacrificio. “La figura di Cristo – afferma infatti il regista su “Il Giorno” del 6 marzo 1963, dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita così come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione”.2

Il VANGELO SECONDO MATTEO/ "L'incontro" dell'ateo Pasolini portato al cinema

Pasolini dunque insiste abbastanza a lungo sul carattere sovversivo e polemico del Messia. Si pensi alle grandi sequenze della collera, al discorso antifarisaico davanti al tempio di Gerusalemme, “alle sequenze documentaristiche delle predicazioni di Gesù filmate come comizi rivoluzionari”3, ai primi piani del Discorso della montagna, dove Gesù si rivolge direttamente alla macchina da presa, con aperta intenzione accusatoria. E ancora, l’ironia stanca con cui risponde alle cavillose domande teologiche di farisei e sadducei (inquadrati sempre frontalmente nelle loro pose irrigidite), che, imprigionati nei loro abiti solenni (desunti nientemeno che da Piero della Francesca), vengono assunti a emblemi di un moralismo borghese repressivo e dottrinario.

Anche se poi Pasolini non era interessato a un film di denuncia, a un film ideologico o religioso: voleva fare in verità un’opera di poesia capace di esprimere quel “sentimento irrazionale” che provava per Cristo e che voleva mostrare principalmente attraverso un’ “espressività scandalosa”.

All’eclettismo figurativo (si è accennato alle scelte audaci dei costumi) e al gusto della contaminazione corrisponde poi un registro linguistico molto complesso e improntato alla mescolanza degli stili, senza però che il racconto risenta di frammentarietà o discontinuità. Il risultato è un lavoro estremamente ordinato, regolare ed armonico. Forse il più coerente e compatto di tutta la sua produzione. Così, alle colte inquadrature frontali che citano Duccio, Masaccio, Piero della Francesca, El Greco (a cui rimanda la fisionomia di Irazoqui) e persino Carlo Levi, se ne alternano altre più movimentate, documentaristiche, dove l’uso della camera a mano serve a rappresentare il vitalismo fiducioso del popolo e la soggettiva libera indiretta sottolinea la simultaneità di sguardo tra Gesù e il regista. Le musiche di Bach, Webern e Mozart; Prokofiev; gli Spirituals e i canti popolari, invece, sono usati rispettivamente per sottolineare passaggi solenni, drammatici o emotivi. Solo il momento autenticamente religioso e sacrale è circondato dal silenzio.

Pasolini - Vangelo secondo Matteo parabole - YouTube

Anche il paesaggio, infine, viene investito da questa vocazione contaminatoria e acquisisce in tal modo uno specifico peso simbolico: Pasolini, sempre alla ricerca di un’autenticità che sfugga a una medietà borghese conservatrice e oppressiva, abbandonata l’idea di girare in Palestina (luogo ai suoi occhi ormai corrotto e inautentico) sceglie l’Italia meridionale. Il panorama erto, petroso e insieme grandioso di Matera gli consente così di proiettare l’eterno miserabilismo dei volti cotti dal sole e segnati dalla fatica del proletariato contadino, gli strumenti del lavoro agricolo e artigianale, la povertà degli oggetti domestici in una dimensione mitico-arcaica.

A Pasolini, infatti, non interessa la storia né tantomeno fare un film filologicamente corretto, quanto rappresentare la vicenda secondo modalità che pertengono al mito e che non possono essere ignorate nell’analisi di una vicenda che lui vuole esemplare: “Niente è più contrario al mondo moderno di quella figura mite nel cuore ma mai nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo”4.

Nel Vangelo secondo Gesù Cristo (1991) di José Saramago, il secondo autore della nostra selezione, scandaloso non è soltanto il Cristo, che nasce sporco del sangue della madre, vischioso delle sue mucosità e ha una fragilità tutta terrena, fatta di sofferenze, errori, timori, ma anche Dio, che è dispotico, ambizioso, crudele oltre ogni ragionevolezza, potente e non onnipotente.

Questo, probabilmente, è uno dei motivi che hanno causato la condanna ecclesiastica dello scrittore lusitano: condanna che nemmeno il premio Nobel conseguito nel 1998 è riuscito a mitigare, costringendolo all’autoesilio in territorio spagnolo, a Lanzarote, nelle Canarie.

La condanna – insieme alla responsabilità e al senso di colpa – è anche il grande tema del libro. C’è quella di Giuseppe che, preso dalla paura per la sorte del figlio, ha tralasciato di avvisare gli abitanti di Betlemme dell’immininente arrivo dei soldati di Erode, rendendosi corresponsabile della morte di venticinque bambini. Questo peccato di omissione lo perseguiterà con incubi spaventosi (che poi passeranno a Gesù), fino a quando, a trentatré anni, sopraffatto dall’angoscia, accetterà di morire sulla croce, scambiato per un rivoltoso.

Poi c’è la colpa di Dio che esige il sacrificio del figlio in nome del quale verrà edificata la Chiesa cristiana. Una Chiesa che si affermerà sulle lacrime, sulle sofferenze, sulle torture dei martiri (l’elenco puntiglioso occupa ben tre pagine) che seguiranno l’esempio di Gesù. Gli si oppone il Diavolo, che ama il Cristo di puro amore come ama ogni singola vita del creato. Sulla terra si fa chiamare Pastore e possiede un gregge enorme. Enorme perché le pecore vi muoiono di vecchiaia: non vengono uccise, né vendute e nemmeno tosate. Lui è il vero padre putativo di Gesù, quello che lo ha iniziato – quando, ragazzo, gli faceva da guardiano – al vegetarianismo, perché è cosa immorale assassinare un essere innocente per sfamarsi. Quando Pastore scopre che, su ordine di Dio, ha sacrificato l’agnello precedentemente risparmiato al tempio di Gerusalemme, lo caccia. Troverà rifugio tra la braccia confortevoli e amorose di Maria di Magdala, che lo ama da subito di un amore incondizionato e totalizzante, ben superiore a quello della madre e dei fratelli, in nome del quale rinuncerà alla sua esistenza peccaminosa. Gesù, che adesso è in grado di fare miracoli, libera così gli uomini dalle sofferenze del corpo (però non resuscita Lazzaro perché, come gli dice la Maddalena: “Nessuno ha compiuto tanti peccati in vita per meritare di morire due volte”), ma non può svincolare se stesso dal volere di Dio. 

Durante il secondo incontro sul lago di Tiberiade, Lucifero, con sorprendente capovolgimento dei ruoli, chiede al Creatore di salvare Gesù: implora perdono e promette fedeltà eterna. Il Male potrebbe finire subito, hic et nunc (questa la sua tentazione buona). Ma Dio con logica serrata ribatte che il Bene non può caratterizzarsi senza il Male così come Dio senza il Diavolo. La fine dell’uno sarebbe anche la fine dell’altro.

Perciò Cristo è costretto a offrirsi al martirio (con l’aiuto di un Giuda buono), però non ne deriverà alcun bene, anzi il suo sacrificio genererà male, fanatismo e violenza tanto che, rivolto al cielo, chiede clemenza ai suoi fratelli: “Uomini perdonatelo perché non sa quello che ha fatto”.

La nostra terza opera, infine, è il film Su Re (2012) di Giovanni Columbu, dove di nuovo la Passione viene spogliata della sua sacralità e ricondotta all’umanità. Nella Sardegna impervia e brulla dell’entroterra (ripresa in uno splendido bianco e nero), una comunità di pastori (gli attori sono non professionisti del luogo e alcuni del Centro di Salute Mentale di Cagliari) dalle fisionomie dure, sgraziate di dolente imperfezione, dagli accenti aspri di un dialetto antico e dalla superstizione primitiva, ha condannato Gesù. Tutto è già accaduto. Rimangono lacerti di memorie, brandelli di visioni soggettive, alla maniera di Rashomon (supportate filologicamente dalla lettura sinottica dei quattro Vangeli), di chi ha assistito al martirio.

L’abbassamento kenotico del Cristo (interpretato da Fiorenzo Mattu) qui è totale: brutto, basso, scuro, villoso, il solo sguardo bovino suggerisce l’immagine della vittima sacrificale. Al contrario, Giuda è giovane, bello e delicato (all’inizio Antonio Forma doveva impersonare proprio il Messia). Questo ribaltamento dell’iconografia classica, che investe anche i ruoli, viene motivato dal regista con le parole di Isaia: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere”. Traspare, tuttavia, sottesa, una tradizione ancestrale, nemmeno più percepibile a livello della coscienza, ma pertinente al clima di ritualità antica e mediterranea che permea tutto il film. Ci riferiamo alla pratica del pharmakós, dove un uomo scelto per la sua bruttezza viene prima nutrito a spese della città, poi, in un giorno stabilito, cacciato a frustate o a sassate. Il gruppo scarica così la sua aggressività su un emarginato, scelto per la sua deformità come simbolo del male anche se non è colpevole di nulla. In questo modo il pharmakós diviene contemporaneamente il reietto e il salvatore che con il suo sacrificio permette alla comunità di ritrovare la sicurezza e la pace. In modo analogo Pasolini parla della bestemmia (nel duplice significato che aveva per gli antichi di parola blasfema e sacra) dell’ “apostolo delle genti” che va contro la Chiesa ufficiale e contro l’epoca moderna, che ha perduto ogni senso del sacro.  Eppure il senso può ancora annidarsi nel segreto di una profezia e trovare compiutezza in un corpo straziato e martirizzato. Questa la sua sorte, la sua profezia: “Noi staremo offerti sulla croce, /alla gogna, […] per testimoniare lo scandalo”5

1PPP, Il Vangelo secondo Matteo, in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Garzanti, Milano 1991,p.17.

2Ivi, pag.15

3A Repetto, Invito al cinema di Pasolini, Mursia, Milano, 1998, p.77.

4PPP, “Il giorno”, 6 marzo 1963

5P.P.Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, G. Chaircossi, W. Siti (a cura di), voll2, Garzanti, Milano, 1993, pp. 376-377.

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