Gli ultimi anni
L’amore fu sentito da Comparoni come il raggiungimento della sua compiutezza di uomo e di scrittore, ma nel frattempo la malattia, la grave forma di leucemia di cui soffriva, si andava aggravando, provocando in lui uno stato di tale spossamento che anche lo scrivere diventava una fatica impossibile; scriveva, nel luglio 1951, all’amico Dasioli, dall’ospedale dove era ricoverato per delle trasfusioni: “… sono stanco: avrei molto da lavorare e non posso: le ore della sera, poi, sono interminabili, ed io non ho il minimo sospetto di come andrà a finire”. Ormai, sia gli amici che Ada sapevano che Ezio era condannato: rimaneva solo la speranza di poter ritardare la fine e alleviare il dolore lasciando Reggio Emilia, per un soggiorno a Tremosine e a Malcesine sul lago di Garda, benché, probabilmente, egli avesse perso ogni speranza di guarigione. Scrive, infatti, un amico dello scrittore, Alfredo Gianolio: “i medici, non lui, confidavano in un suo miglioramento per il cambiamento d’aria […]. Il soggiorno al lago non riesce, però, a rompere il muro di solitudine dietro il quale D’Arzo si era trincerato, anzi si fa più intenso quando rifiuta il cibo in un frenetico ricorso all’illusorio sollievo delle sigarette ed esige di tornare a Reggio al più presto, da sua madre”.2 Questo stato di cose appare ancora più chiaro dalle lettere che Degani, il compagno di villeggiatura dello scrittore, inviava ad una sua amica; in una lettera del 27 luglio 1951, descrive particolareggiatamente il tormento di Comparoni che soffre per il dolore fisico, ma soprattutto per la lontananza dalla madre, dalla quale non sopporta di essere separato: “Come ti ho già scritto domani dovremmo essere a Mezzolago. Ti dico dovremmo perché Comparoni voleva già tornare a Reggio. Qui non mangia perché dice che nulla gli sembra pulito se non è il mangiare che gli fa sua madre. Quando era soldato mangiava solo le cose che riceveva da casa! E neppure vuole comprare della roba nelle botteghe perché anche quello non lo trova pulito.” E, prosegue: “Comparoni non so se conclude qualcosa. Il primo giorno rimase in letto fino a mezzogiorno e fumò tutto il giorno invece di mangiare. Comprendo come un corpo sottoposto a questo regime finisca per ammalarsi. E anche ieri sera mentre ha mangiato un poco di minestra ed una puntina di carne sempre tutto senza toccare il pane, tra un boccone e l’altro continuava a fumare. Soffre dell’eccessivo amore che sua madre ha per lui tanto da non poter vivere come tutti”3.
Dall’ultima lettera ad Ada, del 23 agosto 1951, comprendiamo quanto ormai sia avanzato il decorso della malattia, anche se il tono dello scrittore è di una malinconia contenuta, senza disperazione o ribellione: “… mi sento realmente poco bene: in certe ore del giorno male addirittura: non esco quasi più, niente mi piace più […].”4
Morì pochi mesi dopo nel ricovero di Villa Ida, il 30 gennaio, a trentadue anni non ancora compiuti, per il linfogranuloma diagnosticatogli il febbraio dell’anno precedente. Negli ultimi suoi giorni Comparoni appariva, agli amici che andavano a trovarlo, totalmente immobilizzato dal male e la madre, sapendo che il figlio non avrebbe voluto essere visto in quelle condizioni, se ne stette fino alla sua morte fuori della stanza, seduta nel corridoio dell’ospedale, chiedendo notizie sul decorso della malattia a coloro che lo visitavano.
Ezio Comparoni fu sepolto nel cimitero monumentale della città e la madre, colpita da quel dolore immenso, continuò a vivere in funzione del figlio, adoperandosi perché fossero pubblicate le opere ancora inedite: solo lo sconfinato amore per Ezio le permise, infatti, di affrontare questa impresa. Nella prima lettera che inviò a Vallecchi, infatti, si legge lo sconforto di una donna senza speranze, esattamente come la Zelinda Icci di Casa d’altri: “[…] So che può comprendere il mio grande dolore, dolore che finirà colla mia insopportabile vita […] e così aspetto giorno per giorno la morte che mi liberi e che mi dia quella pace che in terra non potrò mai avere, glielo giuro che non ne posso più”5. Raggiunse il figlio dodici anni dopo. (altro…)
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Silvio D’Arzo, lo straniero: capitolo I, Paragrafo VII
Posted in biografia, letture critiche, tagged Ada Gorini, Alfredo Gianolio, Elisa Bondavalli, Ezio Comparoni, Giannino Degani, malattia di Silvio D'Arzo, Rosalinda Comparoni, Silvio D'Arzo on 25 agosto 2013| Leave a Comment »
Silvio D’Arzo
Posted in biografia on 29 dicembre 2010| 1 Comment »
Nato nel 1920 Silvio D’Arzo, all’anagrafe Ezio Comparoni, è figlio di Rosalinda Comparoni, originaria di Cerreto Alpi, e di padre ignoto. L’assenza paterna, vissuta dallo scrittore come una macchia originaria ineliminabile (come si evince anche analizzando la sua produzione letteraria), intensifica il legame, che fin da subito si connota come simbiotico ed esclusivo, con la madre assieme alla quale trascorre tutta la sua breve esistenza nel misero stanzone di via Aschieri n°4, in centro a Reggio Emilia, tra difficoltà economiche e aspirazioni letterarie, Rosalinda Comparoni (di cui è felice trasposizione letteraria la Zelinda di Casa d’altri), sebbene sia una povera e umile donna del popolo che si barcamena con lavori saltuari per sbarcare il lunario, è, però, capace di intuire le straordinarie doti del figlio che si qualifica subito come genio precoce conseguendo la maturità classica da privatista a soli sedici anni e laureandosi poi a ventuno all’università di Bologna con una tesi in glottologia su tre varietà del dialetto reggiano. La scelta di laurearsi con una tesi riguardante Reggio Emilia testimonia il profondo legame che il nostro autore ha sempre avuto con la sua città natale, evidente non solo nei riferimenti paesaggistici, nelle usanze e nei proverbi della tradizione reggiana che compaiono in tutti i suoi racconti, ma anche nella scelta dello pseudonimo D’Arzo (utilizzato nel 1942 per l’unica sua opera pubblicata in vita, All’insegna del Buon Corsiero) con cui, attraverso un’originale etimologia, vuol rendere omaggio alle sue radici: D’Arzo, infatti, come spiega lui stesso ad un amico, è sostantivazione geografica e in lingua di Arzan che nel nostro dialetto significa appunto da Reggio. Sebbene a tratti sia pervaso da profonda insofferenza per il clima chiuso della vita provinciale, è sempre restio ad allontanarsi da casa, e se lo fa è solo perché costretto. Come quando frequenta la scuola Ufficiali per il servizio di leva che lo porta da Como a Barletta, dove l’8 settembre 1943 viene catturato dai tedeschi e poi riesce fortunosamente a fuggire. Oppure quando deve recarsi a Roma per sostenere il concorso a cattedre per insegnante di Lettere. Infine la breve permanenza sul lago di Garda quando ormai è gravemente malato. La sua attività principale è dunque l’insegnamento, il suo campo di interesse è la letteratura, in cui i classici vengono dialetticamente messi confronto con i moderni (soprattutto inglesi e americani), e nei ritagli di tempo si dedica a quella che è la sua vera passione: la scrittura. “Niente al mondo è più bello che scrivere -afferma, infatti – anche male anche in modo da far ridere la gente. L’unica cosa che so è forse questa”. Anche se D’Arzo muore giovanissimo, nel 1952, all’età di soli trentadue anni (per una forma grave di leucemia), la sua produzione appare abbastanza ampia ed eterogenea. Si va dai saggi critici, che si presentano come essays di taglio anglosassone, in cui emergono, per l’appunto, l’amore e la conoscenza profonda per la letteratura angloamericana, ora raccolti sotto il titolo, che lo scrittore stesso aveva ideato, di Contea inglese; all’attività poetica; alla narrativa per ragazzi, tra cui ricordiamo Penny Wirton e sua madre, ma anche Il pinguino senza frac e Tobby in prigione; ai racconti brevi, tra cui spiccano Due vecchi e Alla giornata; e infine i romanzi All’insegna del Buon Corsiero e, soprattutto, Casa d’altri (pubblicato postumo) che la critica unanime riconosce come il suo capolavoro (Montale ebbe a definirlo: “un racconto perfetto”), in cui i temi esistenziali della solitudine, dell’estraneità, della precarietà del vivere così presenti in tutta la sua poetica, toccano il vertice e vengono universalizzati in una sintesi felice e originale di stile e di immagini.