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Archive for gennaio 2011

 

L’anno scorso la casa editrice Quodlibet, a distanza di dodici anni dalla prima edizione Feltrinelli, ha riproposto all’attenzione dei lettori il fortunato romanzo Silenzio in Emilia dello scrittore reggiano Daniele Benati.

Accolto con successo di critica quando è uscito e vincitore di diversi premi, ultimamente il libro era divenuto introvabile.

Lieti per la ristampa, dopo le pagine dedicate a Silvio D’Arzo, proseguiamo la nostra rassegna sugli scrittori reggiani con questo autore a nostro avviso assai rappresentativo nel panorama letterario emiliano e non solo.

Silenzio in Emilia racconta dell’esperienza surreale di personaggi morti che “tornano indietro” nei luoghi della loro esistenza terrena per continuare quello che facevano in vita: “Ci sono molte credenze legate ai morti – dice l’autore stesso a inizio del primo episodio – che però in tempi moderni non valgono più. La gente non ci crede o non ci pensa, ecco il perché. Ma dice un tale dalle mie parti che i morti tornano spesso dove hanno vissuto, delle volte passandoci in treno di notte, oppure delle altre compiendo un’azione tipica della loro vita “.

Nel tornare al loro vecchio mondo, le anime, però, avvertono un attrito. Innanzitutto, perché non riconoscono più i luoghi familiari che adesso si sono modernizzati; in secondo luogo, perché non recepiscono la loro condizione metafisica. Questa inconsapevolezza è poi quella che dà origine a situazioni paradossali e spesso comiche, sottolineate da un lessico e da una fraseologia popolare o popolareggiante vivissimi, in cui l’impressione di linguaggio parlato viene restituita con l’utilizzo in chiave espressiva di ripetizioni, anacoluti, ellissi e attraverso la frammentazione del periodo.  Così a Baraldi gli hanno “tolto d’in mano la borsa”, mentre  il protagonista del terzo racconto dice: “vedevo tutta la scanalatura del petto. Vedevo il petto della moglie di Afro che sembrava morbido e profumato, e mi è venuta voglia di metterci il naso in mezzo e di annusare, che però non l’ho fatto”. Si aggiungono poi altre tipiche espressioni dell’oralità reggiana come: “ Veh, Cagnolati!; “è andato là a scuriosare”; la loro società era andata a ramengo”; “Ah, non lo so mica”; “Venga un canchero al Mecco”, ecc.

Il mimetismo linguistico, poi, insieme all’accurata selezione onomastica tutta rigorosamente reggiana dei Badodi, dei Cigarini, degli Ascari, dei Soncini è assai funzionale a renderci familiari questi eccentrici che ci appaiono come lo specchio di un’emilianità concreta e insieme originale, testarda, scontrosa ma anche bizzarra e un po’ strampalata.

Ma la soglia bassa della prospettiva narrativa e il ‘non sapere’ dei personaggi serve soprattutto, stando sempre alle parole dello scrittore, a ridare dignità alle cose banali della vita a cui normalmente non si fa caso: il fantastico di Benati non si manifesta dunque nello straordinario ma nell’ordinario, che viene così sottratto all’automatismo della percezione.

E proprio a partire dalla configurazione del paesaggio, la realtà circostante non ha più niente di consueto: ci si smarrisce in luoghi aperti e “distese di niente”, si fatica a trovare l’orientamento in strade che sembrano tuffarsi lontano in un banco di nebbia, ci si trova immersi in un silenzio irreale che avvolge tutte le cose.

Spazi metafisici e silenzi irreali rappresentano dunque i correlativi oggettivi della condizione sospesa di queste anime in un non-luogo posto a mezza via tra questo mondo e l’aldilà. Nelle avventure di questi morti che tentano di rivivere il loro passato e di cavarsela con “mezzi un poco al di sotto del bisogno“, emerge allora e intensamente il senso della tragicità dell’esistenza. Un tragico che non tocca mai le vette della disperazione ma che nondimeno si percepisce proprio a partire dal quotidiano avvertimento del contrario.

Per porre fine a questa situazione di incertezza, per lasciare definitivamente questa dimensione che pare una dimensione purgatoriale più che infernale, come invece è stato detto e come credono molti dei protagonisti del libro (“ho capito che stavo per morire come i peccatori di Dante Alighieri all’inferno”), è necessario, però, che i personaggi dei racconti rivivano la loro morte, cosa che puntualmente avviene a fine di ogni racconto.

Solo l’undicesimo e ultimo episodio, intitolato Tema finale, che l’autore ci ha detto essere la cornice narrativa dell’intero volume e la chiave interpretativa di tutte le storie, si conclude in modo diverso, con il protagonista, il figlio di Socetti, che va in Paradiso.

E ci va tenendo la bicicletta per mano, sotto la banalissima luce dei lampioni, mentre legge il tema alla sua guida, la compagna di classe di cui in vita era segretamente innamorato, che, guarda caso, di cognome fa Portinari come la Beatrice dantesca.

Alla fine, come direbbe Silvio D’Arzo, “non ci sono paradisi: umano il cercarli, umanissimo il crederci, ma di un triste ridicolo il trovarli davvero“.

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Di Elisa Bondavalli ©2010

Questo mio intervento critico è contenuto nel volume, AA. VV. Note & immagini su D’Arzo, Montecchi Emilia, 2010.

Penny Wirton e sua madre. Tra autobiografismo e immaginario letterario.

La genesi e le vicende editoriali

Il racconto per ragazzi Penny Wirton e sua madre ha conosciuto una genesi lunga, complessa e tribolata: dal 1943, anno della prima ideazione al 1948, anno della stesura definitiva e solo due pubblicazioni postume, nel 1978, con disegni di Alberto Manfredi, per la collana Struzzi di Einaudi, ormai introvabile, e nel 2003 per la casa editrice MUP che poi lo ha riproposto quest’anno insieme ad altre tre opere darziane, per celebrare l’anniversario della nascita dello scrittore reggiano.

L’idea di cimentarsi con la letteratura per l’infanzia prende l’avvio dalla proposta dell’editore Vallecchi che, in una lettera del 12 febbraio del 1943, gli chiedeva se gli andava l’idea di scrivere un libro per ragazzi: “Con la vostra fantasia, che si accende anche nelle occasioni più modestesuggeriva – mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel settore della letteratura infantile1.

Vallecchi conosce già lo scrittore reggiano dato che proprio la sua casa editrice gli ha appena pubblicato il romanzo d’esordio, All’insegna del Buon Corsiero, e per aver letto il manoscritto che poi verrà pubblicato con il titolo di Osteria.

Trattandosi ora di un libro per fanciulli, l’editore, forse per evitare certe punte di allusività stilistica riscontrate nell’opera prima, raccomanda: “Naturalmente bisognerebbe tenere presente che certi resultati magici della vostra prosa non sono adatti per i piccoli lettori, i quali non rintraccerebbero il valore evocativo di gesti, situazioni, ecc. Ma di queste messe a punto non avete bisogno”2.

Comparoni, sebbene si trovi ad Avellino sotto le armi come allievo ufficiale, accoglie con entusismo la proposta di Vallecchi, come si evince dalle parole con cui informa l’amico Canzio Dasioli della novità: “Ti confesso che l’idea mi attirerebbe, non fosse altro che per il valore di esperimento, e per fare qualcosa – tentare, adesso esagero – di fare qualcosa che in Italia […] ancora non c’è. Non credi, infatti, che manchi (Pinocchio escluso) un libro per ragazzi che sia di poesia e di dignità. Anzi, negli ultimi anni questo genere è diventato addirittura nauseante”3. Così, nello stesso giorno in cui scrive all’amico, manda anche all’editore una risposta di consenso: “Vi dirò senz’altro che la vostra proposta mi fa riaffiorare un vecchio e mai soddisfatto desiderio di scriverne appunto uno al modo mio. Cinque anni fa circa, leggendo il Perrault, prima, poi, poco dopo, J. Matthiew Barrie, scoprii […] degli orizzonti inaspettati, vastissimi, un miracolo nella letteratura per bambini: un campo nuovo, o quasi – non credete? – benché di – diciamo – coltivazione assai difficile. […] mi applicherò senz’altro, con un ardore, vedrete, affatto nuovo, perché desidero scriverlo, soprattutto, a un modo mio, che non può trovare la sua completa espressione se non in un mondo fatto per bambini”4.

D’Arzo prende dunque molto sul serio l’impegno e oltretutto dichiara di avere ben presenti certi modelli della letteratura per l’infanzia europei, ma soprattutto inglesi. L’entusiasmo e la materia sono tali che di racconti per fanciulli giunge a scriverne ben cinque e nel carteggio con l’editore fiorentino degli anni successivi al ’43 si trova una grande abbondanza di titoli, trame, abbozzi, accenni a libri in fieri.

La “prima remota anticipazione del libro”, per usare le parole stesse dello scrittore, è una poesia5 (che insieme ad altre avrebbe dovuto introdurre ogni capitolo) che parla dei ragazzi di Pik-taun, del buon maestro, della collina e di altri nuclei narrativi che confluiranno poi nella stesura definitiva.

Nel maggio dello stesso anno la storia comincia a prendere forma: La cittadina ora si chiama Pictaun, c’è sempre il Buon Maestro e il protagonista, il “piccolo e timido Vernon Gunter ha solo una cosa, ma grande, grande e bella come il mondo (il ricordo di suo padre, corazziere, morto un giorno a cavallo per il re)”6.

Due mesi dopo (la lettera è senza data, ma dovrebbe risalire ai mesi luglio- agosto), compare anche la figura di una levatrice zitella che “per consolare la sua tarda età, la sua vita senza sole, adotta un figlio, un bambino, Tom, infine: e questi muore, un giorno, andando a pesci”7.

Nella ballata Lamento dell’Anna dei bambini8, che, come già anticipato, doveva essere un lirico commento ai capitoli alla maniera del Kipling dei due libri della giungla, la levatrice ha il nome che poi passerà alla madre di Penny Wirton e inoltre fanno la loro prima apparizione altri personaggi come il Cancelliere di Contea, che giungeranno fino alla stesura definitiva.

Queste prime bozze del futuro racconto appaiono assai significative e i commenti lirici, oltre ad attestare la parentela con modelli d’oltremanica, Kipling, e d’oltreoceano il Masters della Spoon River Anthology e il Wilder di Our Town, testimoniano che l’autore sta elaborando la sua tormentata vicenda autobiografica (la madre anziana, l’assenza del padre, ecc.), ma anche che il suo pessimismo esistenziale non ha ancora trovato lo sbocco consolatorio necessario a suggellare un racconto per l’infanzia (il protagonista muore alla fine della vicenda).

Il 28 dicembre compare anche “il titolo provvisorio9“: Il buon maestro e i ragazzi di Pictaun.

Nell’epistola del marzo del ’44, D’Arzo scrive a Vallecchi che in questo periodo ha corretto, ampliato, meglio, rifatto, il libro per ragazzi che ora ha per protagonista un fanciullo di nome Gec. Nell’illustrare la prima parte all’editore, Comparoni spiega che è la storia di un bambino che ha perduto la giovinezza e la riacquisterà su una nave di vecchissimi pirati, per poi ritornare a casa, a Pictaun dal Campanile, alla Collina ed a sua madre. “Questa – racconta – è la favola di ogni bambino: ogni mattina, infatti, un ragazzo si alza e trova che ha le scarpe brutte, il vestito brutto, etc…, che il maestro legge la lezione, che le lettere che scrive sono brutte… Ma, ogni sera, una nave di vecchi pirati parte da un porto qualsiasi per pigliare il ragazzo e dargli l’illusione e la giovinezza. Può accadere, però, qualche volta che la nave, o per le vele troppo deboli, o il nostromo un poco pazzo, giunga sulla spiaggia troppo tardi: i bambini allora, dopo aver aspettato un’ora o due, se ne torneranno tristemente a casa. Sono quelli che, a sette anni, scriveranno la prima poesia”10.

In questo suo rifacimento, D’Arzo ha potuto dar sfogo alla sua generosa fantasia aggiungendo alla materia autobiogafica reminiscenze, suggestioni, stilemi di quegli autori della letteratura anglosassone più estrosi e stravaganti, come il Barrie di Peter Pan, che in seguito sarà costretto a chiamare in causa in più di un’occasione quando la sua scelta narrativa verrà messa in discussione per la lontananza dal gusto e dal canone italiani.

Per il momento, comunque, il Nostro va avanti per la sua strada e il 30 maggio 1944 ha mutato il titolo in Gec dell’Avventura (da notare come scriva anche i titoli alla maniera inglese), ha concluso la stesura di una terza parte; ne prevede una quarta, una quinta e un epilogo. Nel frattempo, sta portando avanti quella riflessione sulla letteratura per l’infanzia che aveva avviato l’anno precedente: una riflessione che è anche un’analisi del panorama italiano che gli appare sotto molti aspetti deludente, banale e, soprattutto, inadeguato a stimolare la fantasia e la capacità riflessiva dei giovani lettori: “Scusa, sai, se insisto nel chiamarlo <libro per ragazzi>, ma mi sembra che, in fondo, lo sia: da bambino-bambino – no: ma da ragazzo lo credo. Delle volte, noi siamo un poco ingannati dai libri brutti e sciatti e balbettanti che si indirizzano ai ragazzi: e perché, poi, dovrebbero essere tutti così? Qualcosa, forse, i ragazzi non capiranno: non certamente l’essenziale: l’allegoria, forse: ma l’allegoria l’ho fatta per i grandi: io sono del parere, infatti, che <Gec dell’Avventura> sia un libro per bambini che possono leggere anche i grandi, piuttosto che viceversa”11.

In chiusura, ancora una volta, professa la sua volontà e il suo impegno affinché il libro risulti diverso dai soliti volumi per ragazzi a partire dal fatto che è tutto scritto in endecasillibi. Tuttavia, sia l’allegorismo, sia la cadenza ritmica introdotta probabilmente a favore dei bambini (gli endecasillabi di D’Arzo ricalcano in qualche modo il Kipling di Just so stories) solleveranno perplessità che l’autore non riuscirà a dissipare.

Il 26 giugno Vallecchi manifesta la volontà di mantenere al libro il carattere di una pubblicazione per l’infanzia anche se, secondo lui, può essere letto con maggiore utile e diletto dagli adulti: “nella sua doppia destinazione, e nella atmosfera fantastica, credo che possa avvicinarsi a certi romanzi inglesi di grande fortuna, come il Peter Pan e Wendy ecc.”12.

Passa oltre un anno e Gec non vede la luce. Nascono varie incomprensioni tra autore ed editore al punto che D’Arzo minaccia di passare ad un’altra casa editrice. Poi i contrasti si appianano e nuovamente si torna a parlare del libro, non senza che Vallecchi esprima i soliti dubbi: “Ti dirò dunque francamente, anche a costo di farti dispiacere, che rinvierei di qualche giorno la pubblicazione di ‘Gec dell’avventura’ perché oggi bisogna evitare per quanto è possibile quello che sembrerebbe logico, e cioè la pretesa che il pubblico adopri il suo cervello e pensi. Quel tuo bellissimo romanzo, invece, ha tutte le difficoltà dei volumi che si rivolgono ai ragazzi per parlare piuttosto agli adulti”13.

Nel frattempo Comparoni si incarica di far raffigurare gli episodi del libro all’illustratore Cavani di Modena, ma, nel settembre del ’45, esprime all’amico e curatore fiorentino tutta la sua delusione sapendo che Gec non sarà in libreria nemmeno in occasione del Natale.

Nel luglio del’46 l’interlocutore di D’Arzo cambia perché il racconto passa, per volontà dell’editore alla Fontelucente, la collana vallecchiana per ragazzi, diretta da Gino Bizzarri, che fin da subito, pur apprezzandone “i pregi di invenzione e il clima poetico”, si dice non convinto della stesura.

La delusione di Comparoni lascia spazio a parole amare e ancora a sostegno del suo libro, a più riprese, cita gli esempi di Barrie, Carrol e Kipling.

Nell’ottobre dello stesso anno, poi, dopo una premessa in cui confida a Vallecchi di aver quasi ultimato una raccolta di saggi su scrittori inglesi, dal titolo, appunto, di Contea inglese, che comprende autori come Conrad, Stevenson, Kipling, un breve studio su Polonio di Shakespeare, uno sulla poesia sepolcrale inglese, dove l’approccio è quello moderno dell’umanità, per convincere vieppiù l’editore della sua scelta narrativa, gli scrive: “la letteratura inglese io la studio da anni a punto da essermene, non solo impossessato, ma perfino permeato”14.

A gennaio del 1947 il libro non è ancora uscito, ma interessante è la lunga e colorita lettera che Gino Bizzarri invia il diciassette dello stesso mese al nostro scrittore, dove comincia col deplorare il fatto che voglia firmare Gec con un nome diverso, non essendo a conoscenza che già D’Arzo era uno pseudonimo: “Comincio subitissimo col dirLe che non approvo mascherature di nomi e tanto meno mascherature anglosassoni: lei si chiama Silvio D’Arzo e Silvio D’Arzo deve restare. A questo punto, se l’educazione me lo permettesse, ci schiafferei volentieri un perdio!”.

Poi prosegue, sempre con la schiettezza che lo caratterizza, a confutare le ragioni che l’autore aveva messo in campo per obiettare alle perplessità vallecchiane: “Conosco i precedenti a cui Ella allude a cominciare dal vecchio Peter […]. Anch’io, leggendo il Suo manoscritto, avevo più volte pensato, per analogia, a quel raro gioiello, nelle sue parti così dissimili, che, con buona pace di tutti gli editori e di tutti gli illustratori […] è un libro da ragazzi come io sono un canonico del Duomo di Reggio. La verità è che anche noi grandi qualche volta abbiamo di queste letture e che, quasi vergognandocene, inventiamo, sapendo di mentire, che si tratta di libri da ragazzi. Perciò io avevo la sconcertante idea che Lei avesse scritto un libro terribilmente da adulti, e che l’etichetta Fontelucente fosse quasi una bolletta del dazio per entrare in città. […] Vada come vada, attendo la nuova redazione del lavoro”15.

Le osservazioni di Bizzarri così dirette e senza giri di parole, quella perentoria sollecitazione a riesaminare e a inviare un racconto in una veste nuova, devono aver colpito molto profondamente D’Arzo che da questo momento inizia il rifacimento che approderà nel 1948, come è noto, a Penny Wirton e sua madre.

Il 1947 è un anno decisivo che apre il periodo più significativo della produzione artistica darziana in cui occupa un posto di rilievo un’altra lunga e tormentata elaborazione, quella di Casa d’altri (è, infatti, di quest’anno la prima stesura); appaiono su rivista due piccoli capolavori, Elegia alla signora Nodier16Due vecchi17; si dedica alla riscrittura del racconto per ragazzi; pubblica sul “Contemporaneo” il saggio “Conrad e l’Umanità” dove mette a punto la sua riflessione critica sulla letteratura e sulle nuove esigenze del pubblico. Inaugura, dunque, una nuova stagione narrativa in cui abbandona con decisione i toni lirico – favolosi per approdare ad una visione triste e sconsolata della vita e ad uno stile sobrio, contenuto, a volte dimesso, quasi di pacata elegia.

Lo stesso D’Arzo mostra di essere consapevole di trovarsi a un momento di svolta come si evince nella lettera che invia al suo editore il 19 marzo: “[…]vedi, finalmente sono uscito da una fase di attesa e di studio, e sono entrato in un’altra di realizzazione. Scrivo adesso parecchio: ho parecchie trame, racconti, un romanzo […]In Aprile [sic] sono già d’accordo con Bizzarri per mandargli <<Gec>> che appare in un nuovo stile e di cui mi sento particolarmente soddisfatto”.

Nell’aprile 1947 dice di aver “completamente rifatti 7 dei 10 capitoli del libro per ragazzi”. Nei fogli manoscritti che ora giacciono nel fondo Degani della nostra biblioteca Panizzi questi sette capitoli portano il titolo Le tribolazioni del povero Bobby e i restanti tre, Le avventure del povero Bobby; sono firmati con il nuovo pseudonimo di Andrea Colli e vengono inviati alla Fontelucente con la speranza (che ancora una volta sarà disattesa) di vedere il libro pubblicato prima delle feste natalizie.

Il povero Gec, a questo punto, come scrive, con la solita vivacità, Bizzarri “è definitivamente accoppato”.

A settembre Comparoni comunica a Vallecchi la sua decisione di mutare pseudonimo, e questo è, una volta di più, un indizio importante della svolta che lo scrittore ha dunque imboccato verso la coscienza del reale, dopo che l’esperienza bellica gli ha ormai aperto gli occhi su una tristezza e uno squallore non più soltanto suoi: “C’è poi un’altra cosa: ormai, dati i tempi mutati, data quest’epoca nuova, dopo una guerra del genere, chiamarsi Silvio D’Arzo è nello stile del peggiore d’Annunzio e di qualche cantante d’operetta: io lo scelsi quando ero ancora un ragazzo, e mi si poteva perdonare. Adesso no: non si può: e, dal momento che, per un libro per ragazzi, scritto e stampato per i ragazzi, il fatto che io abbia scritto una volta <Il buon corsiero>, non può destare né curiosità né interesse, né influire benevolmente in qualche modo, ne prendo un altro: Aldo Colli: che è comunissimo: oppure Aldo Collin18.

Più tardi la scelta andrà a quello con cui ha già firmato i manoscritti, cioè Andrea Colli.

La scelta di nomi, per usare un’espressione dello scrittore stesso, “ordinari come la carta gialla” rende perplesso Bizzarri che, non essendo in grado di associare il mutamento onomastico al mutamento di stile, l’undici novembre gli invia una lettera di questo tenore : “Io non avevo mai pensato, fino a qualche mese fa, che Silvio D’Arzo fosse uno pseudonimo. Pensavo ti chiamassi così, e il nome e il cognome erano ben sistemati entro la nicchia della mia conoscenza. Poi mi dissero che ti chiamavi Comparoni e questo nome mi piacque di meno, come ben poco mi dice questo Andrea Colli che mi odora di formaggi reggiani”

Agli inizi del 1948 il libro non è ancora corredato di tutte le illustrazioni e quindi non è ancora pronto per uscire, ma D’Arzo, ben consapevole del carattere esotico del suo libro, secondo le lusinghiere parole di Emilio Cecchi, che in agosto leggerà il racconto pervenutogli nella sua veste definitiva, comincia a chiedere a Vallecchi di proporlo a editori inglesi e americani che secondo lui dovrebbero essere maggiormente in grado di apprezzarne quei caratteri così inequivocabilmente anglosassoni.

Sulla base dei contatti vallecchiani si decide, dunque, di inviare il racconto, che Comparoni ha preventivamente fatto tradurre a sue spese in inglese e in francese, negli Stati Uniti, in Francia e in Inghilterra. A parere dello scrittore reggiano sarebbe adatto anche ad un pubblico spagnolo e portoghese, conscio del fatto, come afferma lui stesso, che si riconnette anche alle tradizioni picaresche di quei paesi, ma questo, gli dice esplicitamente l’editore, sarebbe un passo successivo.

Ad un certo punto si accendono le speranze che la casa editrice Desclée lo pubblichi: l’8 ottobre Vallecchi così trasmette la risposta avuta dal suo intermediario in Francia: “Ho raccomandato calorosamente il progetto chiamando l’attenzione della casa Desclée sull’alto valore educativo ed insieme sull’originalità dell’opera, ed ora aspetto la risposta, che io credo sia favorevole, giacché i caratteri del libro corrispondono del tutto alle esigenze morali dell’editore e ai suoi gusti. Date le possibilità di numerose tirature la casa Desclée Le chiederà i diritti non solo per la Francia ma per tutti i paesi di lingua francese…”. L’editore si sente fiducioso e fa ottimistiche previsioni: “Possiamo sperare un gran successo!”

Il 9 ottobre, forse appena letta questa missiva, probabilmente sull’onda dell’entusiasmo vallecchiano, D’Arzo stila un curioso contratto in carta bollata, relativo all’imminente strepitoso successo di Penny Wirton, con l’amico Canzio Dasioli verso il quale si impegna a versare la somma di un milione di lire italiane se i diritti ricavati dal libro assommeranno a dieci milioni.

A parte questo segnale positivo, però, non ne arriveranno altri e anche la vicenda editoriale estera, come quella italiana peraltro, si concluderà in un nulla di fatto e, nonostante le energie profuse per sollecitare le case editrici, le sue speranze andranno deluse. Il racconto, come già anticipato in apertura, verrà pubblicato solo postumo a distanza di trent’anni esatti.

Il racconto

Il 1948 è dunque l’anno in cui la poetica darziana, dopo la pausa riflessiva, dà gli esiti più alti, a partire dal conclamato capolavoro, Casa d’altri, alla produzione saggistica più rilevante, ai racconti per ragazzi Il pinguino senza fracTobby in prigione, e, naturalmente, l’approdo alla versione definitiva di Penny Wirton e sua madre, dopo l’abbandono di Gec .

La distanza qualitativa che divide Gec da Penny (passando attraverso la redazione del Povero Bobby), è, sostanzialmente e soprattutto quella da un testo intriso di echi letterari (Carrol, Kingsley e, specialmente Barrie) e di quel nonsense di matrice anglosassone, pressoché sconosciuto da noi, ad uno in cui si accentua la tendenza al realismo anche se di un “realismo fiabesco”, in cui l’elemento fantastico si sviluppa a partire dal quotidiano. Un quotidiano che come sempre in D’Arzo ha i caratteri dell’ autobiografia.

Se Gec, infatti, come osserva giustamente la Lenzi19, giocava su un livello intellettualistico alto con rimandi colti adatti forse ad un pubblico più adulto, Penny, invece, mostra come l’autore abbia introiettato a fondo la lezione dell’amato Stevenson e giunga a scrivere una storia in cui l’invenzione è inserita in un contesto narrativo ben solido e strutturato.

Quello che D’Arzo apprezza dello scrittore scozzese è proprio la sua capacità di congiungere un senso scrupoloso del reale con l’immaginario: “Perché Stevenson sapeva una cosa importante: che ai nostri tempi […] una sola condizione è rimasta per cui si possa accettare anche il più poetico dei ‘c’era una volta’: che sia documentato anche più di una storia e di una cronaca. Ed eccolo perciò cominciare nella più precisa maniera, con due cognomi e una data […]. Ma ne sentiva […] una anche più importante […] che per trovare logica un’avventura occorre un alito di illogicità. Che, insomma, per ‘credere’ veramente a una favola occorre in fondo che sia un poco incredibile”.

Ha compreso, per usare le parole di Umberto Eco (a sua volta entusiasta ammiratore de L’isola del tesoro) nelle postille a Il nome della rosa, una lezione importante, che “per raccontare bisogna anzitutto costruirsi un mondo, il più possibile ammobiliato sino agli ultimi particolari”, e che “occorre crearsi delle costrizioni, per poter inventare liberamente”20.

E l’adozione del modello stevensoniano appare fin dal prologo del manoscritto Bobby: “Era Aprile: era un sabato: era il 1714 nella parrocchia e contea di Pictown”, e si conserva anche in Penny : “Suonarono in quel momento le otto. Le otto del 12 maggio del 1721. La contea di Pictown si era appena svegliata”.

Luogo, anno, giorno, ora, vengono registrati con minuziosa precisione perché il racconto possa cominciare anche se, pure nell’introduzione, l’autore si era sentito in dovere di avvisarci che: “Questa è la vera storia di Penny, e della madre e del padre di Penny “. Un’informazione che, posta proprio così in apertura, come ci ricorda sempre la Lenzi, “ci rende impossibile dimenticare, leggendo Penny Wirton, il <romanzo delle origini> di Ezio Comparoni”21.

Il materiale autobiografico, infatti, è evidente fin dalle prime righe: Pictown, immaginaria cittadina inglese presenta subito i connotati della reggianità, con quel suo Duomo davanti al quale mendica il Cieco (come sulla piazza reggiana a suo tempo il cantastorie cieco Gaetano Cagliari), con “la vecchia dei portici che vendeva arance e castagne”; con i leoni di sasso ma è soprattutto con la fraseologia e con la presenza dei proverbi della nostra tradizione che il racconto acquista colore e autenticità. Troviamo, ad esempio, espressioni del tipo: aveva una faccia da due di novembre; più avvilito di un gallo dalla coda inzuppata; un calendario di tutta quaresima; non ultimo, un magnifico e sapidissimo, radeva il formaggio.

Poi c’è il Maestro supplente di quasi ventotto anni, evidente doppio letterario del professor Comparoni, che così parla della sua difficile esperienza, si direbbe oggi, di precario: “Io mi chiamo Isaia Balcop, sono Baccelliere d’arte e maestro di scuola: ho ventisette anni e a momenti ventotto: e da dieci non faccio che andare da una scuola all’altra, come un pitocco alle fiere”22.

E, proprio in questi giorni in cui la questione del precariato nella scuola italiana si mostra in tutta la sua gravità e drammaticità, e pagine e pagine vengono scritte in proposito, ebbene, io credo di non aver mai letto sintesi più efficace di quella, capace, con una sola battuta, di dire quale sia la condizione umiliante di chi deve ogni anno proporsi come insegnante pro tempore, in posizione di “Quasi-Maestro e nient’altro”, che, tanto, “in tutte le parti che va è Purgatorio per lui”.

Insieme al Supplente vediamo comparire anche Penny, ma come di sbieco, e poi sua madre, la vedova Anna Wirton che interviene presso il Maestro per evitare una punizione al figlio. Il nuovo insegnante è infatti adirato col ragazzo che gli pare si sia preso gioco di lui con una serie di fandonie sul padre. L’anziana donna, ennesima, ma forse più realistica e piena trasposizione letteraria di Rosalinda Comparoni, spiega che in realtà è lei l’artefice di quelle menzogne, inventate per dare al figlio, il più povero di tutta la Contea (non indossa nemmeno un vero vestito ma una coperta gialla da sella che è stata riadattata) e per giunta orfano di un genitore, un motivo di orgoglio e di rivalsa nei confronti dei compagni ricchi.

Penny, infatti, grazie ai racconti della madre crede che suo padre sia un eroe deceduto combattendo nella battaglia della Brughiera di Fellow,mentre in verità Tedd Wirton era un povero sellaio morto di stenti. Il guaio per Anna Wirton è che il marito, che come tutti i morti di Pictown continua a “vivere” nel cimitero sul Colle, è impaziente che il figlio apprenda la verità sul suo conto. La memoria dei vivi, infatti, è l’unica che assicuri una sopravvivenza oltre la morte, e la sola a consentire di non “sparire di colpo e per sempre, peggio ancora che un soffio di vento”, come accade alle ombre che i congiunti hanno dimenticato. Così, il ragazzo trascorre i suoi giorni da una parte appagato per gli edificanti racconti materni sulle sue origini, ma dall’altra lottando tenacemente contro l’esclusione sociale di cui lo fanno oggetto i compagni di scuola. Per vendicarsi del loro ostracismo, Penny finisce per stringere un patto con “quel trappolone del Cieco” che, in cambio di notizie segrete, di cui intende poi servirsi a scopo di ricatto e che il ragazzo deve procurarsi andando a origliare e spiare per tutta la città, gli promette di rivelargli la verità sul conto del padre. Ritratto tra i più riusciti del libro, questo Cieco di mestiere, bugiardo, maldicente, indovino, dispotico, cinico, deve la sua fisionomia a due celeberrimi archetipi: il Lazarillo de Tormes e il Pew della stevensoniana Isola del tesoro.

Dopo essersi imbattuto, alla fine di una delle sue esplorazioni per conto del Cieco, nella Compagnia del coltello (ancora una volta di stevensoniana memoria), Penny, sulla via del ritorno verso casa ormai a notte inoltrata, del tutto inaspettatamente, viene a conoscenza delle sue vere origini, dalla madre stessa sorpresa al Cimitero del Colle a colloquio con l’ombra del padre.

In preda ad un forte sentimento di delusione, il ragazzo come gesto di ribellione fugge da casa.

Si rifugerà, lavorando come sguattero alla locanda di Shorly, una contea non troppo distante, ma lontana da tutte le strade più frequentate.

Anna Wirton, nel frattempo, sembra “una povera gatta dai gattini annegati” e, disperata, va a bussare agli usci di tutti i potenti in cerca di aiuto. Ma, sperimentata la loro indifferenza alla sua pena, in segno di protesta decide di non aiutare più i bambini a nascere.

Vittima dell’insensibilità prima, e dell’ostilità poi di tutto il paese, grazie alle manovre dei potenti viene portata in giudizio con l’accusa di avere ucciso il suo stesso figlio. Penny, venuto a sapere per caso che la madre sta per essere condannata a morte, accorre per salvarla e, divenuto ormai così scaltro da costringere il Cieco ad aiutarlo, riuscirà a far cadere tutte le accuse. Egli, infatti, possiede un’arma formidabile per distruggere ora i persecutori suoi e della madre: può svelare gli imbrogli, le falsificazioni, le turpitudini cui gli illustri personaggi erano ricorsi per raggiungere il potere.

Il lieto fine (peraltro comune anche gli altri due racconti per ragazzi, Il pinguino senza fracTobby in prigione) coincide anche con il compimento del Bildungsroman di Penny che ora è in grado di gestire i suoi sentimenti di inadeguatezza (come forse anche lo scrittore attraverso la pagina scritta) e, soprattutto, si dichiara pronto per affrontare la ferialità dell’esistenza: “Mi vergognerò com’è giusto, fino a questa sera alle dieci, quando tutti e due andremo su al Colle. Ma poi , mamma, io non ci penserò più che tanto: E domani sarà lunedì.- Lunedì?- disse sua madre fissandolo – Penny, ecco una decente parola. Una garbata parola, lunedì […]. E per giunta è anche l’unica strada per arrivare a domenica.

Il racconto quindi si chiude con questa parola così evocativa e densa di significato: il lunedì è l’emblema della ricapitolazione e della catarsi, ma anche e soprattutto di un “coraggio feriale”23 che si consolida attraverso la memoria del proprio passato.

Alla fine della storia Penny annuncia, infatti, il proposito di recarsi al cimitero a visitare, foscolianamente, l’ombra del padre che d’ora in poi sarà sostegno alla sua esistenza, come già a quella della madre.

Questo ruolo di cui sono investiti i morti di Pictown è certamente denso di echi letterari che ci conducono subito (ma non senza una doverosa tappa alla Spoon River Anthology) ai defunti di Our Town di Thornton Wilder che come questi parlano, sono vicini ai vivi, s’interessano alle vicende familiari, danno consigli e, soprattutto insegnano il valore supremo della quotidianità: “[…] Accadeva tutto questo, tutte queste cose – dice l’Emily morta di parto che ha chiesto di tornare sulla terra – e noi le vivevamo senza neanche accorgercene. Ah, riportatemi lassù… sulla collina… nella mia tomba… c’è nessuno… nessun essere umano che sappia quello che sta vivendo mentre lo vive? Nessuno?”24.

Non solo Wilder, naturalmente, ma anche, come già è stato sottolineato, l’Henry James de ” L’altare dei morti, che scriveva: “le anime sono salvate per il mondo dei vivi […] salvate per la realtà, per la continuità e per la certezza del ricordo umano”25.

Ma l’atmosfera elegiaca e funerea che pervade il racconto di James è estranea al racconto darziano.

Gli spiriti di Pictown certamente non fanno paura, né gettano un’ombra luttuosa e inquietante sulla storia. La loro presenza al Colle, anzi, ha una dimensione in qualche modo domestica (Anna Wirton ogni sera sale al colle con i problemi di matematica di Penny scritti su un foglietto perché Tedd li risolva), con anche qualche spunto di comicità per cui, giustamente, si fa riferimento a Stevenson e alla sua Isola del tesoro, dei cui morti D’Arzo dice nel suo saggio del 1950 intitolato Tusitala: “I morti di Treasure Island, del resto, sono ben strani morti: quali solo sarebbe dato incontrare per le vie di un racconto ariostesco. Ottimi compagni, d’accordo: ma non si piange su loro. La nostalgia non ci tocca, e la dimenticanza nemmeno. Troppo bene si sente che sono morti soltanto alla vicenda e che da una specie di rustico paradiso, quale potrebbe essere benissimo una collina o una siepe, si metteranno a guardare anche loro […]”26.

Nei loro racconti dedicati all’infanzia, dunque, sia D’Arzo sia Stevenson hanno esorcizzato la morte con un sorriso in modo da farla apparire non come un evento traumatico ma anzi del tutto ordinario.

E come evento ordinario è rappresentato anche nell’opera prima di un altro scrittore reggiano, Daniele Benati, che nel suo Silenzio in Emilia del 1997, racconta di personaggi morti che “tornano indietro” nei luoghi della loro esistenza terrena per continuare quello che facevano in vita, interagiscono coi vivi, (difficilmente rimangono semplici spettatori) e infine rivivono la loro morte: “Ci sono molte credenze legate ai morti- dice l’autore stesso a inizio del primo episodio – che però in tempi moderni non valgono più. La gente non ci crede o non ci pensa, ecco il perché. Ma dice un tale dalle mie parti che i morti tornano spesso dove hanno vissuto, delle volte passandoci in treno di notte, oppure delle altre compiendo un’azione tipica della loro vita “27.

Nel tornare al loro vecchio mondo, le anime, però, avvertono un attrito. Innanzitutto, perché non riconoscono più i luoghi famigliari che adesso si sono modernizzati; in secondo luogo, perché non recepiscono la loro condizione metafisica. Questa inconsapevolezza è poi quella che dà origine a situazioni paradossali e spesso comiche, sottolineate da un lessico e una fraseologia popolare o popolareggiante, vivissimi. Proprio nella frattura, poi, che si crea tra l’indifferenza dei vivi (che spesso sfocia nell’insofferenza) e questi morti costretti a rivivere il loro passato, emerge il senso della tragicità dell’esistenza.

Un tragico che non tocca mai le vette della disperazione ma che affiora a partire da circostanze quotidiane o, col pirandelliano avvertimento del contrario.

Questo viaggio a rovescio delle anime che giungono in un aldiqua emiliano fatto di luoghi aperti e “distese di niente”, dove si fatica a trovare l’orientamento e, darzianamente, bisogna cavarsela con “mezzi un poco al di sotto del bisogno28, è, a mio avviso una dimensione purgatoriale più che infernale, come invece è stato detto. Non per niente il libro si chiude con il protagonista dell’ultimo racconto, Socetti, che va in paradiso.

E ci va tenendo la bicicletta per mano, sotto la banalissima luce dei lampioni, mentre legge il tema alla sua guida, la compagna di classe di cui in vita era segretamente innamorato, che, significativamente, si chiama Portinari.

Perché (e D’Arzo lo sapeva bene), in realtà, “non ci sono paradisi: umano il cercarli, umanissimo il crederci, ma di un triste ridicolo il trovarli davvero29.

Per concludere, mi sembrava che il miglior modo per celebrare i novant’anni della nascita di D’Arzo fosse quello, in qualche modo, di rintracciare, a partire dall’analisi di uno dei suoi racconti lunghi, volutamente non il più famoso, la sua eredità attraverso il confronto con uno scrittore contemporaneo, possibilmente reggiano.

Mi pare, infatti, che D’Arzo per primo (ma forse, per certi versi, lo aveva già fatto Ariosto) abbia inaugurato un modo di fare letteratura peculiarmente emiliano, in cui il rapporto con la tradizione è per usare la celeberrima invenzione di Contini a proposito di Pascoli, un accordo eretico30: il quotidiano, il concreto si piegano nella direzione dell’assurdo e in questo modo si crea lo spazio per la riflessione critica.

1Silvio D’Arzo- Enrico Vallecchi, Carteggio 1941-1951. Contributi annoVIII 1984, nn.15-16 Biblioteca A. Panizzi, di Reggio Emilia, Mucchi editore, Modena, 1984, lettera n. 31 di Vallecchi, pag. 72. Ora in Lettere, MUP, Parma, 2004, pag.39.

2Ibidem

3Lettera all’amico Canzio Dasioli, da Avellino, 27 febbraio 1943, ora contenuta in Lettere, MUP, Parma, 2004, pag.373

4Silvio D’Arzo- Enrico Vallecchi, Carteggio 1941-1951. Contributi, annoVIII 1984, nn.15-16 Biblioteca A. Panizzi, di Reggio Emilia, Mucchi editore, Modena,1984, lettera di D’Arzo n.36, pagg. 79- 80. Ora in Lettere, MUP, Parma, 2004, pag.49.

5Cfr. Carteggio, lettera n.31, pag.84.

6Cfr. Carteggio D’Arzo – Vallecchi, lettera n.42, pag.88; edizione MUP, pag.58.

7Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.46, pag. 95; edizione MUP, pag.65.

8Questa poesia, con notevoli varianti, apparve sul “Contemporaneo” a.II n.12, 21 ottobre 1946 come imitazione da una ballata inglese.

9Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.55, pag. 103; edizione MUP, pag.76.

10Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.62, pag. 111; edizione MUP, pag.86.

11Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.69, pag. 117; edizione MUP, pag.95.

12Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.71, pag. 120; edizione MUP, pag.97.

13Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.84, pag. 139; edizione MUP, pag.121.

14Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.111, pag. 174; edizione MUP, pag.164.

15Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.119, pag. 182; edizione MUP, pag.174.

16Elegia alla signora Nodier apparve su “Cronache” n.3 il 18 gennaio 1947.

17Due vecchi apparve su “Cronache” n.29-30, il 19-26 luglio 1947.

18Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.143, pag. 205; edizione MUP, pag.203.

19Cfr Lenzi Anna Luce, Silvio D’Arzo narratore per ragazzi in Silvio D’Arzo. Lo scrittore e la sua ombra. Atti delle Giornate di studio Reggio Emilia 29-30 ottobre 1982, Vallecchi editore, Firenze, 1984.

20Eco Umberto, Il nome della rosa, Bompiani, Milano, 1980, Postille.

21Cfr. Lenzi Anna Luce, Silvio D’Arzo narratore per ragazzi, contenuto in Silvio D’Arzo. Lo scrittore e la sua ombra. Atti delle giornate di studio Reggio Emilia, 29-30 ottobre 1982, Vallecchi Editore, Firenze, 1984.

22Silvio D’Arzo, Penny Wirton e sua madre, MUP, Parma, 2009, pag.9.

23Lenzi Anna Luce, Silvio d’Arzo, l’isola e il mondo, in Scrittori nei due ducati,Comune di Montecchio Emilia, 1986.

24Thornton Wilder, Our town, traduzione italiana, Piccola città, NIE, 1989

25Henry James, L’altare dei morti, Sansoni, Firenze.

26Silvio D’Arzo, L’isola diTusitala,in Contea inglese, a cura di Eraldo Affinati, Sellerio, Palermo, 1987, pag.44.

27Benati Daniele, Silenzio in Emilia, Feltrinelli, Milano, 1997, pag.7.

28Silvio D’Arzo, Joseph Conrad o dell’Umanità,in Contea inglese, a cura di Eraldo Affinati, Sellerio, Palermo, 1987.

29Ibidem.

30Contini Gianfranco, Il linguaggio di Pascoli, in varianti ed altra linguistica, Einaudi, Torino, 1970

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