Questa volta la sfida era impari: nientemeno che il racconto che dà il titolo alla rivista… Una sfida impari quanto paralizzante… Alla fine è uscito Văn: qualsiasi cosa sia, lo dedico a tutti i Malpelo di oggi e a coloro che, per quanto incompresi, non cessano di esercitare il coraggio civile.
UNA STORIA VERA
Introduzione del direttore Demetrio Salvi
C’è lo zampino di Verga, questa volta. Una presenza insistente, ineliminabile.
E un’ovvia ridondanza dei numeri, come se dicessero qualcosa, proprio al di là dell’insondabile mistero della loro forma: il 2022 è pieno di ricorrenze letterarie e non solo, inutile dirlo.
Alcune ci sono particolarmente care perché indicano, ripetono, ci sollecitano a riflettere, a tornare sui nostri passi: in questo modo, hanno un che di terapeutico, di iterazione capace di sistemare, di mettere a posto le cose quasi per difenderci dall’insensatezza del tutto.
Cento anni fa moriva l’ultraottantenne Verga. Ma moriva anche Proust, di molto più giovane.
Esce L’Ulisse, di Joyce, in concomitanza con il suo quarantesimo compleanno.
Nascono, tra gli altri, Fenoglio, Pasolini, Kerouack e, ahimé, è anche la data della marcia su Roma.
Non è un gioco particolarmente interessante ma, questa volta, è un omaggio dovuto tenendo in considerazione il nome che porta questa rivista: Malpelo.
Come al solito, poi, ci saranno motivazioni più intime e misteriose — magari anche “volgari” — che hanno spinto verso questo tema: qualche rigurgito dovuto al visionamento ossessivo di una serie televisiva (Better Call Saul) può, forse, dire qualcosa: il gergo degli avvocati avrà influenzato una scelta (nient’altro che la verità) che, in qualche modo, resta prevedibile ma chiarifica quanto sia potente, nel nostro immaginario, la presenza di un televisivo che, in taluni casi, mette in gioco intelligenze raffinate, quelle di sceneggiatori abili a piegare la nostra volontà e a immergere il mondo del nostro immaginario in una narrativa che ci avvolge tanto da rendere “vita” ciò che è unicamente “visione”. Diventa inquietante confondere i personaggi di una serie quali realtà fisiche che, normalmente, pratichiamo, “viviamo” appunto. Sfaldano il nostro senso di realtà, lo piegano e lo modellano fino a farci presupporre che quel mondo fantastico è capace di penetrare il reale: la verità diventa, allora, un tutt’uno con questo universo fantasmatico che non riusciamo più a limitare, che proprio deborda nel quotidiano: il sogno, insomma, non ha più uno spazio specifico, non rientra più nell’alveo del sonno. I personaggi diventano fisicamente vivi: ci concediamo l’eventualità d’incontrarli per strada, al supermercato, in fila alla posta. La verità diventa, così, questo spazio ampio dove si mescolano corpi di differente qualità materiale. E i racconti e le storie che qui troverete stanno proprio a testimoniare che non ci sono limiti tra reale e immaginario, che i nostri cinque sensi sono troppo pochi per cogliere la densità di uno spazio che non può certo limitarsi alla misera esistenza di ciò che, semplicemente e banalmente, vediamo o sentiamo o tocchiamo… Nient’altro che la verità affronta questo mondo più affascinante, meno semplice, più complesso che viviamo senza averne piena coscienza, inutile dirlo.
Questa non è un’altra rivista letteraria, perché di riviste letterarie ce n’è sempre bisogno, perché fanno parte di quel mondo affine al cibo, al godimento, di cui non se ne può fare a meno e di cui ce n’è sempre voglia, sempre desiderio.
Certo, abbiamo scelto un contenitore complesso e ben poco pacifico. Nascere “con” e “dentro” Amazon rende tutto un po’ più complicato: bisogna accettarne le regole, le strategie talvolta perverse e condividere (ma entro certi limiti!) quelle che sono le sue vicende (talvolta ben poco condivisibili).
Eppure non possiamo fare a meno di godere di quella libertà che pure questo strumento mette a disposizione: ci andiamo a collocare in quell’area di felicità che pure, in qualche modo, questa piattaforma genera. Alle strategie di Amazon opponiamo le nostre, corrodendo dall’interno ciò che possiamo aggredire, forare, divorare. Il progetto, insomma, ci piace: ci permette un grado interessante di libertà di movimento e ci garantisce una velocità d’esecuzione per niente trascurabile.
Malpelo è un crogiolo di sentimenti, di spinte che rischiavano di rimanere inespresse, uno spazio che permette di agire anche a chi è fuori da certe dinamiche commerciali della scrittura. Ciò che garantiamo è l’attenzione al lettore, un’attenzione vigile che evita lo sguardo solipsistico, che mira a tenere in considerazione l’intenzione e il godimento dell’altro. Meno ombelico e più interazione, dinamiche di coinvolgimento, emozioni condivise.
Si parte da uno spunto, da un argomento e lo si declina lasciando a ogni scrittore la possibilità d’intervenire a suo modo, mettendo in gioco eventualmente anche quelle che sono le dinamiche legate ai generi letterari. Iniziamo con “un incontro”, punto di partenza di questo primo numero e sollecitazione letteraria provata, negli anni passati, durante certi corsi di sceneggiatura tenuti a Roma e in tutta Italia. Uno stimolo utile a confrontare ciò che immaginiamo e ciò che viviamo (al tempo la proposta si articolava in due fasi: veniva chiesto agli allievi di scrivere prima un testo su di un incontro immaginario poi su un incontro realmente vissuto, proprio per stimolare l’attenzione su come i due mondi, in realtà, siano un mondo solo). Qui, in questo primo numero, ritroverete alcune di quelle prove realizzate e messe assieme ad altre, più recenti, utili a generare una piacevole confusione tra passato, presente, realtà altra, articolazione impropria di un discorso che va avanti e che mette assieme ex allievi di questi corsi con altre scritture, di recente acquisizione.
A racconti drammatici si accostano storie più legate al mondo giovanile, che diventa territorio particolarmente interessante da attraversare. Oppure sono i generi letterari a far mostra dei propri colori, dei propri sapori. Oppure ancora è la poesia, quella più tradizionale e severa, che si fonde con testi in prosa che nascondono, tra le loro pieghe, i ritmi della lirica e metafore più ardite.
Ci piace immaginare che questa rivista si porti dentro il piacere del viaggio, della scoperta ma anche della difficoltà che, talvolta, uno spostamento impone. Improvvisi cambiamenti di programma, necessità del tutto nuove, l’imprevedibile opposizione del tempo: tra un racconto e l’altro è possibile godere di queste fratture repentine, di certe incongruenze che sono tipiche del viaggio reale. Stili diversi animano storie che vivono spalla a spalla. Questi continui tradimenti al movimento consequenziale e lineare fanno parte del nostro piacere.
Questo appartiene alla rivista che state per leggere. Arricchiremo nel futuro queste pagine con recensioni e con aree vicine al disegno, al fumetto, all’illustrazione. E vi garantiamo che saremo pronti a cambiare la nostra rotta se il desiderio ci spingerà, forte, da un’altra parte.
Siamo pronti a partire, a cambiare direzione, a realizzare gli scarti necessari a rendere emozionante un percorso da condividere, capace di mettere assieme scrittori e lettori.
I Vangeli laici di Pier Paolo Pasolini, José Saramago, Giovanni Columbu
Elisa Bondavalli per “Marla. Cinema alla fine delle immagini” n.6 giugno- agosto 2015.
Perché intellettuali non solo laici ma addirittura dichiaratamente atei, a più riprese nel corso del tempo, hanno sentito l’esigenza di confrontarsi col testo evangelico? Quale il valore sconvolgente del messaggio cristiano? Quale la sua attualità?
Sicuramente la Vita di Gesù (1863) di Ernest Renan, che esaltava l’umana grandezza di Cristo a scapito della natura divina, è stata la prima scandalosa risposta.
Un secolo dopo, Pier Paolo Pasolini, proprio quando si accinge a realizzare il suo Vangelo secondo Matteo che la Pro Civitate Christiana, nell’ottobre del 1962, mentre sta aspettando l’arrivo di papa Giovanni XXIII (a cui poi il film sarà dedicato), con “delizioso-diabolico calcolo” gli fa trovare sul comodino della sua stanza ad Assisi, confesserà la sua esaltazione per una “natura umana così alta, rigorosa e ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità”1.
Un’umanità che rimanda alla condizione intima, poetica e culturale dell’autore.
Il “dolceardente” Gesù pasoliniano (interpretato dallo studente spagnolo Enrique Irazoqui) è infatti speculare al vissuto politico e personale dell’autore (la madre nel ruolo di Maria, gli amici intellettuali e scrittori in quello degli apostoli non sono scelte neutrali), al suo insopprimibile bisogno di espiazione e volontà di sacrificio. “La figura di Cristo – afferma infatti il regista su “Il Giorno” del 6 marzo 1963, dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita così come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione”.2
Pasolini dunque insiste abbastanza a lungo sul carattere sovversivo e polemico del Messia. Si pensi alle grandi sequenze della collera, al discorso antifarisaico davanti al tempio di Gerusalemme, “alle sequenze documentaristiche delle predicazioni di Gesù filmate come comizi rivoluzionari”3, ai primi piani del Discorso della montagna, dove Gesù si rivolge direttamente alla macchina da presa, con aperta intenzione accusatoria. E ancora, l’ironia stanca con cui risponde alle cavillose domande teologiche di farisei e sadducei (inquadrati sempre frontalmente nelle loro pose irrigidite), che, imprigionati nei loro abiti solenni (desunti nientemeno che da Piero della Francesca), vengono assunti a emblemi di un moralismo borghese repressivo e dottrinario.
Anche se poi Pasolini non era interessato a un film di denuncia, a un film ideologico o religioso: voleva fare in verità un’opera di poesia capace di esprimere quel “sentimento irrazionale” che provava per Cristo e che voleva mostrare principalmente attraverso un’ “espressività scandalosa”.
All’eclettismo figurativo (si è accennato alle scelte audaci dei costumi) e al gusto della contaminazione corrisponde poi un registro linguistico molto complesso e improntato alla mescolanza degli stili, senza però che il racconto risenta di frammentarietà o discontinuità. Il risultato è un lavoro estremamente ordinato, regolare ed armonico. Forse il più coerente e compatto di tutta la sua produzione. Così, alle colte inquadrature frontali che citano Duccio, Masaccio, Piero della Francesca, El Greco (a cui rimanda la fisionomia di Irazoqui) e persino Carlo Levi, se ne alternano altre più movimentate, documentaristiche, dove l’uso della camera a mano serve a rappresentare il vitalismo fiducioso del popolo e la soggettiva libera indiretta sottolinea la simultaneità di sguardo tra Gesù e il regista. Le musiche di Bach, Webern e Mozart; Prokofiev; gli Spirituals e i canti popolari, invece, sono usati rispettivamente per sottolineare passaggi solenni, drammatici o emotivi. Solo il momento autenticamente religioso e sacrale è circondato dal silenzio.
Anche il paesaggio, infine, viene investito da questa vocazione contaminatoria e acquisisce in tal modo uno specifico peso simbolico: Pasolini, sempre alla ricerca di un’autenticità che sfugga a una medietà borghese conservatrice e oppressiva, abbandonata l’idea di girare in Palestina (luogo ai suoi occhi ormai corrotto e inautentico) sceglie l’Italia meridionale. Il panorama erto, petroso e insieme grandioso di Matera gli consente così di proiettare l’eterno miserabilismo dei volti cotti dal sole e segnati dalla fatica del proletariato contadino, gli strumenti del lavoro agricolo e artigianale, la povertà degli oggetti domestici in una dimensione mitico-arcaica.
A Pasolini, infatti, non interessa la storia né tantomeno fare un film filologicamente corretto, quanto rappresentare la vicenda secondo modalità che pertengono al mito e che non possono essere ignorate nell’analisi di una vicenda che lui vuole esemplare: “Niente è più contrario al mondo moderno di quella figura mite nel cuore ma mai nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo”4.
Nel Vangelosecondo Gesù Cristo (1991) di José Saramago, il secondo autore della nostra selezione, scandaloso non è soltanto il Cristo, che nasce sporco del sangue della madre, vischioso delle sue mucosità e ha una fragilità tutta terrena, fatta di sofferenze, errori, timori, ma anche Dio, che è dispotico, ambizioso, crudele oltre ogni ragionevolezza, potente e non onnipotente.
Questo, probabilmente, è uno dei motivi che hanno causato la condanna ecclesiastica dello scrittore lusitano: condanna che nemmeno il premio Nobel conseguito nel 1998 è riuscito a mitigare, costringendolo all’autoesilio in territorio spagnolo, a Lanzarote, nelle Canarie.
La condanna – insieme alla responsabilità e al senso di colpa – è anche il grande tema del libro. C’è quella di Giuseppe che, preso dalla paura per la sorte del figlio, ha tralasciato di avvisare gli abitanti di Betlemme dell’immininente arrivo dei soldati di Erode, rendendosi corresponsabile della morte di venticinque bambini. Questo peccato di omissione lo perseguiterà con incubi spaventosi (che poi passeranno a Gesù), fino a quando, a trentatré anni, sopraffatto dall’angoscia, accetterà di morire sulla croce, scambiato per un rivoltoso.
Poi c’è la colpa di Dio che esige il sacrificio del figlio in nome del quale verrà edificata la Chiesa cristiana. Una Chiesa che si affermerà sulle lacrime, sulle sofferenze, sulle torture dei martiri (l’elenco puntiglioso occupa ben tre pagine) che seguiranno l’esempio di Gesù. Gli si oppone il Diavolo, che ama il Cristo di puro amore come ama ogni singola vita del creato. Sulla terra si fa chiamare Pastore e possiede un gregge enorme. Enorme perché le pecore vi muoiono di vecchiaia: non vengono uccise, né vendute e nemmeno tosate. Lui è il vero padre putativo di Gesù, quello che lo ha iniziato – quando, ragazzo, gli faceva da guardiano – al vegetarianismo, perché è cosa immorale assassinare un essere innocente per sfamarsi. Quando Pastore scopre che, su ordine di Dio, ha sacrificato l’agnello precedentemente risparmiato al tempio di Gerusalemme, lo caccia. Troverà rifugio tra la braccia confortevoli e amorose di Maria di Magdala, che lo ama da subito di un amore incondizionato e totalizzante, ben superiore a quello della madre e dei fratelli, in nome del quale rinuncerà alla sua esistenza peccaminosa. Gesù, che adesso è in grado di fare miracoli, libera così gli uomini dalle sofferenze del corpo (però non resuscita Lazzaro perché, come gli dice la Maddalena: “Nessuno ha compiuto tanti peccati in vita per meritare di morire due volte”), ma non può svincolare se stesso dal volere di Dio.
Durante il secondo incontro sul lago di Tiberiade, Lucifero, con sorprendente capovolgimento dei ruoli, chiede al Creatore di salvare Gesù: implora perdono e promette fedeltà eterna. Il Male potrebbe finire subito, hic et nunc (questa la sua tentazione buona). Ma Dio con logica serrata ribatte che il Bene non può caratterizzarsi senza il Male così come Dio senza il Diavolo. La fine dell’uno sarebbe anche la fine dell’altro.
Perciò Cristo è costretto a offrirsi al martirio (con l’aiuto di un Giuda buono), però non ne deriverà alcun bene, anzi il suo sacrificio genererà male, fanatismo e violenza tanto che, rivolto al cielo, chiede clemenza ai suoi fratelli: “Uomini perdonatelo perché non sa quello che ha fatto”.
La nostra terza opera, infine, è il film Su Re (2012) di Giovanni Columbu, dove di nuovo la Passione viene spogliata della sua sacralità e ricondotta all’umanità. Nella Sardegna impervia e brulla dell’entroterra (ripresa in uno splendido bianco e nero), una comunità di pastori (gli attori sono non professionisti del luogo e alcuni del Centro di Salute Mentale di Cagliari) dalle fisionomie dure, sgraziate di dolente imperfezione, dagli accenti aspri di un dialetto antico e dalla superstizione primitiva, ha condannato Gesù. Tutto è già accaduto. Rimangono lacerti di memorie, brandelli di visioni soggettive, alla maniera di Rashomon (supportate filologicamente dalla lettura sinottica dei quattro Vangeli), di chi ha assistito al martirio.
L’abbassamento kenotico del Cristo (interpretato da Fiorenzo Mattu) qui è totale: brutto, basso, scuro, villoso, il solo sguardo bovino suggerisce l’immagine della vittima sacrificale. Al contrario, Giuda è giovane, bello e delicato (all’inizio Antonio Forma doveva impersonare proprio il Messia). Questo ribaltamento dell’iconografia classica, che investe anche i ruoli, viene motivato dal regista con le parole di Isaia: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere”. Traspare, tuttavia, sottesa, una tradizione ancestrale, nemmeno più percepibile a livello della coscienza, ma pertinente al clima di ritualità antica e mediterranea che permea tutto il film. Ci riferiamo alla pratica del pharmakós, doveun uomo scelto per la sua bruttezza viene prima nutrito a spese della città, poi, in un giorno stabilito, cacciato a frustate o a sassate. Il gruppo scarica così la sua aggressività su un emarginato, scelto per la sua deformità come simbolo del male anche se non è colpevole di nulla. In questo modo il pharmakós diviene contemporaneamente il reietto e il salvatore che con il suo sacrificio permette alla comunità di ritrovare la sicurezza e la pace. In modo analogo Pasolini parla della bestemmia (nel duplice significato che aveva per gli antichi di parola blasfema e sacra) dell’ “apostolo delle genti” che va contro la Chiesa ufficiale e contro l’epoca moderna, che ha perduto ogni senso del sacro. Eppure il senso può ancora annidarsi nel segreto di una profezia e trovare compiutezza in un corpo straziato e martirizzato. Questa la sua sorte, la sua profezia: “Noi staremo offerti sulla croce, /alla gogna, […] per testimoniare lo scandalo”5
1PPP, Il Vangelo secondo Matteo, in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Garzanti, Milano 1991,p.17.
TRE TESTIMONIANZE SULLO SCANDALO
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I Vangeli laici di Pier Paolo Pasolini, José Saramago, Giovanni Columbu
Elisa Bondavalli per “Marla. Cinema alla fine delle immagini” n.6 giugno- agosto 2015.
Perché intellettuali non solo laici ma addirittura dichiaratamente atei, a più riprese nel corso del tempo, hanno sentito l’esigenza di confrontarsi col testo evangelico? Quale il valore sconvolgente del messaggio cristiano? Quale la sua attualità?
Sicuramente la Vita di Gesù (1863) di Ernest Renan, che esaltava l’umana grandezza di Cristo a scapito della natura divina, è stata la prima scandalosa risposta.
Un secolo dopo, Pier Paolo Pasolini, proprio quando si accinge a realizzare il suo Vangelo secondo Matteo che la Pro Civitate Christiana, nell’ottobre del 1962, mentre sta aspettando l’arrivo di papa Giovanni XXIII (a cui poi il film sarà dedicato), con “delizioso-diabolico calcolo” gli fa trovare sul comodino della sua stanza ad Assisi, confesserà la sua esaltazione per una “natura umana così alta, rigorosa e ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità”1.
Un’umanità che rimanda alla condizione intima, poetica e culturale dell’autore.
Il “dolceardente” Gesù pasoliniano (interpretato dallo studente spagnolo Enrique Irazoqui) è infatti speculare al vissuto politico e personale dell’autore (la madre nel ruolo di Maria, gli amici intellettuali e scrittori in quello degli apostoli non sono scelte neutrali), al suo insopprimibile bisogno di espiazione e volontà di sacrificio. “La figura di Cristo – afferma infatti il regista su “Il Giorno” del 6 marzo 1963, dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita così come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione”.2
Pasolini dunque insiste abbastanza a lungo sul carattere sovversivo e polemico del Messia. Si pensi alle grandi sequenze della collera, al discorso antifarisaico davanti al tempio di Gerusalemme, “alle sequenze documentaristiche delle predicazioni di Gesù filmate come comizi rivoluzionari”3, ai primi piani del Discorso della montagna, dove Gesù si rivolge direttamente alla macchina da presa, con aperta intenzione accusatoria. E ancora, l’ironia stanca con cui risponde alle cavillose domande teologiche di farisei e sadducei (inquadrati sempre frontalmente nelle loro pose irrigidite), che, imprigionati nei loro abiti solenni (desunti nientemeno che da Piero della Francesca), vengono assunti a emblemi di un moralismo borghese repressivo e dottrinario.
Anche se poi Pasolini non era interessato a un film di denuncia, a un film ideologico o religioso: voleva fare in verità un’opera di poesia capace di esprimere quel “sentimento irrazionale” che provava per Cristo e che voleva mostrare principalmente attraverso un’ “espressività scandalosa”.
All’eclettismo figurativo (si è accennato alle scelte audaci dei costumi) e al gusto della contaminazione corrisponde poi un registro linguistico molto complesso e improntato alla mescolanza degli stili, senza però che il racconto risenta di frammentarietà o discontinuità. Il risultato è un lavoro estremamente ordinato, regolare ed armonico. Forse il più coerente e compatto di tutta la sua produzione. Così, alle colte inquadrature frontali che citano Duccio, Masaccio, Piero della Francesca, El Greco (a cui rimanda la fisionomia di Irazoqui) e persino Carlo Levi, se ne alternano altre più movimentate, documentaristiche, dove l’uso della camera a mano serve a rappresentare il vitalismo fiducioso del popolo e la soggettiva libera indiretta sottolinea la simultaneità di sguardo tra Gesù e il regista. Le musiche di Bach, Webern e Mozart; Prokofiev; gli Spirituals e i canti popolari, invece, sono usati rispettivamente per sottolineare passaggi solenni, drammatici o emotivi. Solo il momento autenticamente religioso e sacrale è circondato dal silenzio.
Anche il paesaggio, infine, viene investito da questa vocazione contaminatoria e acquisisce in tal modo uno specifico peso simbolico: Pasolini, sempre alla ricerca di un’autenticità che sfugga a una medietà borghese conservatrice e oppressiva, abbandonata l’idea di girare in Palestina (luogo ai suoi occhi ormai corrotto e inautentico) sceglie l’Italia meridionale. Il panorama erto, petroso e insieme grandioso di Matera gli consente così di proiettare l’eterno miserabilismo dei volti cotti dal sole e segnati dalla fatica del proletariato contadino, gli strumenti del lavoro agricolo e artigianale, la povertà degli oggetti domestici in una dimensione mitico-arcaica.
A Pasolini, infatti, non interessa la storia né tantomeno fare un film filologicamente corretto, quanto rappresentare la vicenda secondo modalità che pertengono al mito e che non possono essere ignorate nell’analisi di una vicenda che lui vuole esemplare: “Niente è più contrario al mondo moderno di quella figura mite nel cuore ma mai nella ragione, che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione e per lo scandalo”4.
Nel Vangelo secondo Gesù Cristo (1991) di José Saramago, il secondo autore della nostra selezione, scandaloso non è soltanto il Cristo, che nasce sporco del sangue della madre, vischioso delle sue mucosità e ha una fragilità tutta terrena, fatta di sofferenze, errori, timori, ma anche Dio, che è dispotico, ambizioso, crudele oltre ogni ragionevolezza, potente e non onnipotente.
Questo, probabilmente, è uno dei motivi che hanno causato la condanna ecclesiastica dello scrittore lusitano: condanna che nemmeno il premio Nobel conseguito nel 1998 è riuscito a mitigare, costringendolo all’autoesilio in territorio spagnolo, a Lanzarote, nelle Canarie.
La condanna – insieme alla responsabilità e al senso di colpa – è anche il grande tema del libro. C’è quella di Giuseppe che, preso dalla paura per la sorte del figlio, ha tralasciato di avvisare gli abitanti di Betlemme dell’immininente arrivo dei soldati di Erode, rendendosi corresponsabile della morte di venticinque bambini. Questo peccato di omissione lo perseguiterà con incubi spaventosi (che poi passeranno a Gesù), fino a quando, a trentatré anni, sopraffatto dall’angoscia, accetterà di morire sulla croce, scambiato per un rivoltoso.
Poi c’è la colpa di Dio che esige il sacrificio del figlio in nome del quale verrà edificata la Chiesa cristiana. Una Chiesa che si affermerà sulle lacrime, sulle sofferenze, sulle torture dei martiri (l’elenco puntiglioso occupa ben tre pagine) che seguiranno l’esempio di Gesù. Gli si oppone il Diavolo, che ama il Cristo di puro amore come ama ogni singola vita del creato. Sulla terra si fa chiamare Pastore e possiede un gregge enorme. Enorme perché le pecore vi muoiono di vecchiaia: non vengono uccise, né vendute e nemmeno tosate. Lui è il vero padre putativo di Gesù, quello che lo ha iniziato – quando, ragazzo, gli faceva da guardiano – al vegetarianismo, perché è cosa immorale assassinare un essere innocente per sfamarsi. Quando Pastore scopre che, su ordine di Dio, ha sacrificato l’agnello precedentemente risparmiato al tempio di Gerusalemme, lo caccia. Troverà rifugio tra la braccia confortevoli e amorose di Maria di Magdala, che lo ama da subito di un amore incondizionato e totalizzante, ben superiore a quello della madre e dei fratelli, in nome del quale rinuncerà alla sua esistenza peccaminosa. Gesù, che adesso è in grado di fare miracoli, libera così gli uomini dalle sofferenze del corpo (però non resuscita Lazzaro perché, come gli dice la Maddalena: “Nessuno ha compiuto tanti peccati in vita per meritare di morire due volte”), ma non può svincolare se stesso dal volere di Dio.
Durante il secondo incontro sul lago di Tiberiade, Lucifero, con sorprendente capovolgimento dei ruoli, chiede al Creatore di salvare Gesù: implora perdono e promette fedeltà eterna. Il Male potrebbe finire subito, hic et nunc (questa la sua tentazione buona). Ma Dio con logica serrata ribatte che il Bene non può caratterizzarsi senza il Male così come Dio senza il Diavolo. La fine dell’uno sarebbe anche la fine dell’altro.
Perciò Cristo è costretto a offrirsi al martirio (con l’aiuto di un Giuda buono), però non ne deriverà alcun bene, anzi il suo sacrificio genererà male, fanatismo e violenza tanto che, rivolto al cielo, chiede clemenza ai suoi fratelli: “Uomini perdonatelo perché non sa quello che ha fatto”.
La nostra terza opera, infine, è il film Su Re (2012) di Giovanni Columbu, dove di nuovo la Passione viene spogliata della sua sacralità e ricondotta all’umanità. Nella Sardegna impervia e brulla dell’entroterra (ripresa in uno splendido bianco e nero), una comunità di pastori (gli attori sono non professionisti del luogo e alcuni del Centro di Salute Mentale di Cagliari) dalle fisionomie dure, sgraziate di dolente imperfezione, dagli accenti aspri di un dialetto antico e dalla superstizione primitiva, ha condannato Gesù. Tutto è già accaduto. Rimangono lacerti di memorie, brandelli di visioni soggettive, alla maniera di Rashomon (supportate filologicamente dalla lettura sinottica dei quattro Vangeli), di chi ha assistito al martirio.
L’abbassamento kenotico del Cristo (interpretato da Fiorenzo Mattu) qui è totale: brutto, basso, scuro, villoso, il solo sguardo bovino suggerisce l’immagine della vittima sacrificale. Al contrario, Giuda è giovane, bello e delicato (all’inizio Antonio Forma doveva impersonare proprio il Messia). Questo ribaltamento dell’iconografia classica, che investe anche i ruoli, viene motivato dal regista con le parole di Isaia: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per potercene compiacere”. Traspare, tuttavia, sottesa, una tradizione ancestrale, nemmeno più percepibile a livello della coscienza, ma pertinente al clima di ritualità antica e mediterranea che permea tutto il film. Ci riferiamo alla pratica del pharmakós, dove un uomo scelto per la sua bruttezza viene prima nutrito a spese della città, poi, in un giorno stabilito, cacciato a frustate o a sassate. Il gruppo scarica così la sua aggressività su un emarginato, scelto per la sua deformità come simbolo del male anche se non è colpevole di nulla. In questo modo il pharmakós diviene contemporaneamente il reietto e il salvatore che con il suo sacrificio permette alla comunità di ritrovare la sicurezza e la pace. In modo analogo Pasolini parla della bestemmia (nel duplice significato che aveva per gli antichi di parola blasfema e sacra) dell’ “apostolo delle genti” che va contro la Chiesa ufficiale e contro l’epoca moderna, che ha perduto ogni senso del sacro. Eppure il senso può ancora annidarsi nel segreto di una profezia e trovare compiutezza in un corpo straziato e martirizzato. Questa la sua sorte, la sua profezia: “Noi staremo offerti sulla croce, /alla gogna, […] per testimoniare lo scandalo”5
1PPP, Il Vangelo secondo Matteo, in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Garzanti, Milano 1991,p.17.
2Ivi, pag.15
3A Repetto, Invito al cinema di Pasolini, Mursia, Milano, 1998, p.77.
4PPP, “Il giorno”, 6 marzo 1963
5P.P.Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, G. Chaircossi, W. Siti (a cura di), voll2, Garzanti, Milano, 1993, pp. 376-377.
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