di Andrea Chesi
Tutta, o quasi, l’esile produzione narrativa di Arturo Loria pare contrassegnata da un gioco intrigante che intesse la scrittura di gangli metaforici impreveduti e bizzarri, cui il lettore si imbatte quasi con fastidio, prima di abbandonarsi , una volta vinto dal manierismo cromatico delle assimilazioni, al fluire accattivante della storia.
Ciò non toglie che il “metaforismo spinto” e l’iterazione delle analogie spiazzanti rendano la lettura irta di ostacoli, nella corsa, però, di chi – proprio per quella stravaganza fatta di colori picareschi e sgargianti – intuisca alla fine un premio di gran lunga maggiore.
E il premio indubbiamente arriva, puntuale, svelando quel “senso di esultanza” di cui parlava Northrop Frye nel suo Anatomia della critica, quello che si avverte quando, ancorché affaticati per l’impegno richiesto, ci si sente grati, appagati da quell’esperienza.
Basta rileggere le prime condensatissime righe che aprono il racconto Il caffè arabo:
Il padrone era solo nel caffè. Seduto sullo scranno della cassa volgeva lo sguardo triste per gli scomparti e le nicchie della sala dove qualche tavolo vuoto, passato a lustro da un riflesso, attirava il suo affisamento desideroso di annegar nei primi evanescenti miracoli di una immagine sconosciuta. Ma al più lieve spostar del capo l’ombra di una delle tante colonnine arabe che scendevano dall’alto come per uno sgocciolamento del soffitto o quello di un archetto a doppia fila di denti gialli, avvelenati in punta da tocchi di azzurro cupo, s’allungava sul piano lacustre della luce, riconoscibilmente, così che ogni tentativo di perdersi in uno specchio insolito restava deluso.
E’ questo il benvenuto dato al lettore che si accinge alla lettura del libro forse più maturo e riuscito del narratore carpigiano: La scuola di ballo, dal titolo del racconto che conclude la raccolta. E l’impressione, ancora una volta, è quella di perdersi nelle iridescenze di una scrittura le cui tortuosità ipnotiche accarezzano e promettono, per poi lasciarci in bilico sul vuoto di uno sfondo grigio, dove nausea e malessere decantano inesorabili oltre la superficie di quel luccichio.
Anche i racconti successivi confermano l’impressione iniziale, e il lettore scivola pian piano, affascinato, nel labirinto di vite marginali e sbandate, sempre attraverso la tessitura delle analogie e dei colori, sbattendo poi inesorabilmente nella sensazione struggente dello smarrimento e dell’abbandono.
Si legga, ancora, questo passo tratto dal racconto La casa ritinta (dove già il titolo si presenta come non trascurabile indizio…):
La facciata rosa beveva il sole del tramonto che l’arricchiva e l’espandeva rossastra fuori dall’altre case smorte e bene allineate. Il sole, rappreso pallone di fiamma, batteva in pieno sui vetri di una finestra resa cieca, ma così incandescente che gli occhi non ne sopportavano l’abbaglio. L’altre finestrelle al paragone eran buchi nel muro mal quadrati da una crocetta di legno. Chi passava, levava il capo verso quella luce dorata, stupito di trovarla in città, in una strada triste e remota, poi s’accorgeva della coppia immobile, di lei così bella, e proseguiva ironico, pensando ai rischi che ha un marito troppo poetico: egli, pallido in viso, aveva lo sguardo incantato sulle pietre, gli spigoli e i davanzali, ricchi di un fuoco intimo e dolce di ferro rosso che si spegne.
A maggior ragione, quindi, dopo il campionario caleidoscopico delle immagini che insistentemente séguita ad accompagnare la scrittura, singolarmente risalta il racconto finale, La scuola di ballo, dove alla rarefazione (non esclusione, si badi) dell’impressionismo cromatico così presente altrove, fa da contraltare il plasmarsi di una figura che ci appare, pian piano – nel dibattersi del suo animo e nella tenerezza che ci ispira – sempre più vicina e famigliare: quella di Amina, la protagonista della storia.
Il racconto si staglia nel libro come la figura di Amina nel contesto inerte dell’ambientazione.
Ultima di quattro sorelle soggiogate da una madre autoritaria – che ha fatto della vocazione musicale l’imperativo di una morale rinsecchita – Amina vive con le quattro donne, padrona di sé, insorvegliata. Si sottrae al controllo della madre e prova compassione per le sorelle, che si sciupavano il collo a sfregarlo contro la fascia del violino. Madre e sorelle, peraltro, sfogano di frequente il proprio malumore nei confronti della ragazza, quasi rassegnate all’avvento inesorabile – per lei – di qualche brutta novità , certo molto probabile dato un comportamento così scontroso e trasgressivo. Ma, fa notare l’autore, Forse la punivano d’esser lei sola a dare il senso di una vita carnale, d’apparire come un frutto pieno e sugoso tra noci e mandorle secche.
E il racconto procede attraverso un itinerario di “formazione”, oppure, forse – data l’inventiva straordinaria dell’autore e la sua repulsione verso forme di riscatto che darebbero sollievo al lettore, ma priverebbero la storia delle cicatrici e delle ferite che il dolore porta con sé – di abbandono e di resa , nello scioglimento greve del finale, dove Amina, al capezzale della vecchia maestra di ballo che si spegne pian piano, raccoglie un testamento di parole ambigue e sprofonda sfinita nel sonno.
Vale la pena di passare in rassegna alcune delle figure che Amina incontra nel suo percorso.
La prima è un’allieva di canto della madre, si chiama Carmen, ed è l’unica che Amina guardi con simpatia. E’ la sua straordinaria disinvoltura ad attrarla, la sua voracità nei confronti della vita, che non le ha impedito, per proseguire gli studi, di trovare un parente generoso che l’aiuti. E’ lei che parla ad Amina della scuola di ballo.
Amina vorrebbe assomigliarle, vorrebbe condividere almeno un po’ di quella sufficienza bonariamente cinica che le permette di scivolare sulle cose senza ferirsi, ma desiderio e curiosità non le permettono di rendere se stessa svagata e immemore quanto l’amica. Ed è per questo che il lettore prova quel misto di tenerezza e di affetto per Amina, che nella perplessità inconscia verso la spregiudicatezza innocente di Carmen rivela la profondità e la bellezza di un animo delicato e sensibile, tremendamente in debito d’affetto.
Lo studente di chimica- violoncellista – che fa la sua comparsa in casa di Amina, a tutta prima le sembra orrendo. Ma il carisma del giovane, la padronanza dello strumento e la personalità sicura finiscono per soggiogare le sorelle maggiori – che intuiscono in lui un senso di vita e di calore mai provato prima – e la stessa Amina, che, da quello sfondo inanimato, si affaccia cautamente sul mondo piena di curiosità.
Ben presta finirà fra le sue braccia, risoluta nel darsi a chi le parso diverso, per poi meditare sull’errore commesso a darsi a lui che non aveva parlato d’amore. Ciononostante, divenuta spregiatrice di se medesima, mantiene una persuasione tale, nel darsi, da sbalordire l’amante, in realtà per seguirlo in quella strada d’egoismo, convincersi d’essere senza amore per lui.
Ma il disincanto le pesa terribilmente, tanto da farle invidiare la vita morta delle sorelle, così decide di incrementare la sua frequenza alla scuola di ballo, dove ha ormai ricevuto l’incarico di aiutare la maestra nell’insegnamento, sperando così di impegnare tutta se stessa in qualcosa che la distragga e la ristori. Ed è a questo punto che entra in scena il signor Muzio, nipote della maestra di ballo, e la sua apparizione sprigiona una luce squallida e cupa.
Il signor Muzio ha circa quarant’anni: la sua bruttezza, mischiata a un atteggiamento totalmente privo di grazia, inopportuno e ripugnante nello sforzo maldestro di apparire buono e pietoso, ha qualcosa di sinistro. Vale la pena di riportare le parole dello scrittore, che descrive le viscide prove di corteggiamento del signor Muzio in questo modo: Amina s’era accorta con inimicizia e disprezzo che egli aveva iniziativa solo con ragazze rattristate o deluse di essersi concesse a degli egoisti senza amore (…) Si contentava d’avanzi, per esser più facile l’averli e forse anche per la coscienza di non meritare di più.

A ciò si aggiunge il comportamento insinuante e volgare di una sorella della maestra, lurida e servile, che, ben conscia dell’attrazione che il nipote nutre per Amina, e insieme della vulnerabilità della ragazza, ferita dallo studente di chimica, cerca di spingerla fra le braccia di lui: Cara, cara signorina Amina, il mondo è di chi sa prenderselo. Goda, ora ch’è giovane; goda, tanto il primo che capita non è peggiore di quello scelto con tutte le precauzioni. Un rimedio c’è a tutto: basta adattarsi un poco.
Scivolando verso il finale il lettore si trova quasi a pregare per il cuore grande di Amina, affinché la protagonista della storia riesca a salvarsi dagli artigli di un mondo che vorrebbe trascinarla nella propria melma di insensibilità e di squallore. Si invoca, nel precipizio degli ultimi eventi, una salvezza in extremis, sperando che nelle parole della maestra morente – colei che da subito ha stimato e benvoluto Amina – si celi il bandolo di una residua solarità.
Ma la magia narrativa di Loria e la sua esperienza dell’umano riescono, ancora una volta, a spiazzarci. Accanto allo sfinimento di Amina dormiente col capo abbandonato sul letto, che ha appena recepito l’ultimo inaspettato appello della maestra, si accompagna lo sguardo smarrito della vecchia che attende la morte: con la dura espressione di chi non riconosce più chi gli sta intorno ed è solo con le più tremende paure dell’attesa.
Trascendenza, infanzia, rarefazione: parte VIII
Posted in commenti, letture critiche, scrittori emiliano-romagnoli, scrittori reggiani, tagged Essi pensano ad altro, Ferruccio Masini, Kafka, L'Osteria, Ladislao Mittner, Primo dolore, Silvio D'Arzp, trascendenza on 1 maggio 2014| Leave a Comment »
C’è un altro brevissimo racconto kafkiano, Primo dolore, dove la situazione vissuta dal protagonista è, ancora, la storia di una trascendenza che non si compie. Questa volta la metafora è quella dell’infanzia.
Il protagonista, un trapezista di abilità straordinaria, ci viene presentato come un fanciullo, sebbene questo non venga mai affermato direttamente. Già il titolo sembra alludere al primo momento di un cammino di crescita: il dolore di cui si parla è una raggiunta consapevolezza, il primo grado di una cognizione che si realizza pian piano, come il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Verso le ultime battute della parabola si precisa ai nostri occhi la figura del trapezista, colta nel momento della sua primissima e parziale – ma decisiva – trasformazione, che si consuma nel breve e intenso dialogo con l’impresario del circo in cui si esibisce. L’acrobata dapprima chiede il secondo trapezio, presentato come oggetto insostituibile senza cui non sarà più possibile eseguire altri numeri, poi, nonostante le promesse sincere e affettuose dell’altro, scoppia improvvisamente in lacrime con la stessa violenza ingenua e apparentemente irrazionale di una nevrosi infantile. E’ molto interessante osservare come si comporta a questo punto l’impresario, che, per consolarlo, lo accarezza e preme il viso contro il suo fino a rimanere bagnato dalle sue lacrime. Il rapporto che si istituisce fra i due non risulta simile a quello esistente fra persone alla pari, come due adulti, ma ricorda molto di più quello che si verrebbe a creare fra un adulto e un bambino: non a caso Kafka descrive la fronte dell’acrobata come liscia e infantile, e le rughe che vi si formano, ci dice, sono le prime.
Il protagonista di Primo dolore è un individuo strano, la cui originalità ci stupisce. La sua storia è quella della sua diversità e della sua sofferenza, derivata dall’impossibilità di rendere inattaccabile lo spazio prescelto per la sua ansia di perfezione: l’alta volta del circo dove è situato il trapezio, che vorrebbe essere, come ha scritto giustamente Ferruccio Masini, una costruita trascendenza.
Sono tante, ovviamente, le affinità fra l’illusione di un distacco assoluto, che è la condizione del trapezista, e la ricerca di un isolamento totale da parte di Arseni e Riccardo nell’Essi pensano ad altro. E’ già stato visto come molti tratti delle personalità dei due amici siano caratterizzati da un candore fanciullesco: è la rappresentazione di una sorta di verginità interiore poco prima di essere segnata e logorata dall’esperienza, o nella fase in cui ciò sta avvenendo. Alla condizione di mistica beatitudine, subito infranta, del trapezista, ne corrisponde una, praticamente identica e ugualmente crollata, anche per i due protagonisti dell’Essi pensano: – Prima sì, – disse infine riposandosi. – Perché non sapevamo neanche cosa c’era fuori di questa stanza o questa casa, o solamente per sentito dire. Le bestie e il violino ci bastavano e non abbiamo mai pensato che qualche cosa valesse come quelle o meritasse di farcele dimenticare, di’ di no. E se poi io ti mettevo una tortora o un coniglio sopra l’ottomana, sul violino, tu non dicevi ancora niente, i primi giorni, ma io capivo lo stesso, e forse anche meglio. Perché ci sono cose che si capiscono subito, fra noi due. –
Inoltre Riccardo e Arseni, alla stessa maniera del trapezista, si sforzano di proiettare l’isolamento lungo una direzione verticale, in uno spazio trascendente. Non a caso, infatti, appena ricevuto lo sfratto, l’obiettivo principale delle loro ricerche è un appartamento situato il più in alto possibile: – La cosa più importante è trovare la casa, certamente, magari a un quinto piano o anche più su. –
– Deve essere quasi impossibile più su, – obiettò il vecchio. Si guardava nei vetri quasi ostilmente.
– Ma sarebbe bello no?- s’ostinò ancora il ragazzo a voler quasi ignorare difficoltà numeri e logica.
Arseni distolse lo sguardo dai negozi.
– Certo che a un quinto piano sarebbe bello, – pensò poi ad alta voce.
– Sarebbe come vivere in un’altra terra, specialmente d’inverno o quando piove. –
Per il trapezista, così come per Arseni e Riccardo – tutti individui la cui stranezza è definibile come una specie di diserzione dagli schemi d’abitudine nei quali ci radica il senso comune – ogni residuo, ogni frammento di comunicazione fra il mondo normale degli uomini e lo spazio trascendente a cui tendono ne impedisce l’assoluta giustificazione e realizzazione.
Nel Buon corsiero è naturalmente Lelio il luogo della contraddizione; Lepic nell’ Osteria. Sono entrambi incapaci di decidersi e la loro incapacità assume connotazioni di colpevolezza. Tutti e due si affannano per dimostrare qualcosa: Lelio, nel discorso finale, concitato e caotico, ma pieno di superstizioso terrore; Lepic con le rabbiose proteste rivolte allo sconosciuto, che terminano con l’angosciata supplica di non parlare più.
Anche se non vi è, nella narrativa darziana, quella dimensione di schiacciante trascendentalità che caratterizza quasi tutta la produzione di Kafka, è possibile definire il dramma di Lelio e Lepic, e in parte anche quello di Arseni e Riccardo, con queste parole scritte da Ladislao Mittner per descrivere il travaglio dei personaggi kafkiani: L’uomo escluso dalla vita che pur vorrebbe vivere… si ribella all’istanza superiore ritenuta inumanamente dura o almeno si scoraggia e, per giustificarsi del suo fallimento o della sua fiacchezza, applica il proprio metro personale… onde dimostrare, a se stesso più che agli altri, che l’istanza superiore è ingiusta.
La conclusione del saggio nella settimana successiva
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