Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘letture critiche’ Category

INVITO ALLA LETTURA: LE DUE ZITTELLE DI TOMMASO LANDOLFI

di Andrea Chesi © 2021

In uno scuorante quartiere d’una città essa medesima per tanti versi scuorante…”. Comincia così quello che Tommaso Landolfi definì il suo migliore racconto. E già in quel primo aggettivo, scuorante, per ben due volte ripetuto, il lettore comincia a intravedere quella diffusa polverina grigia, a presentire quell’odore di stantìo e di muffa che impregna di sé ogni ambiente, ogni oggetto e persona dello scarno libretto. Prima di entrare nella fase più narrativa della storia, l’autore imprende una quasi ossessiva descrizione del luogo in cui essa si svolge, dando il via a un procedimento di accorte divaricazioni fra preliminari dichiarazioni di intenti e svolgimenti successivi puntualmente discordanti, connotandosi, di già, nelle sue scanzonate strategie, pur se ancora di una causticità in sordina. Così, infatti, l’abbrivio:

E buon per il lettore ch’io non sento il dovere … di descrivere minutamente simili luoghi … dunque cercherò di limitarmi qui ai cenni strettamente indispensabili…”

Ma il seguito è al contrario un climax descrittivo che pian piano nulla ci risparmia, e il quartiere dove “le due zittelle” (come recita il titolo del libro, con snobistica cura dell’autore di scrivere la doppia t per riferimento al falso etimo zitte) hanno la loro casa, è disvelato nei suoi più incresciosi simboli di grettezza e di squallore. 

Dall’avara e polverosa chioma di qualche albero, “eucalitti chissà o altri eunuchi vegetali”, dalla “vaga aria di… reazione”, dall’ “odor di moccoli e di panni sporchi”, del rione, siamo condotti dentro all’appartamento delle zittelle, le cui anguste stanze vengono scandagliate dall’onnivora pignoleria dell’autore, che si sofferma infine sul ben poco invitante aspetto delle due inquiline, sui cui visi, oltre che “nei solchi fra le pinne del naso e le guance… stagnava perennemente un denso sudore, simile a sego.”

LE DUE ZITTELLE Tommaso Landolfi Recensioni Libri e News UnLibro

Completa questa prima parte la presentazione di alcuni grigi individui che sono soliti frequentare la casa delle due donne, personaggi perlopiù decrepiti e scuoranti, appunto, oltre a “un discreto numero di monache, frati, preti, diaconi e simigliante compagnia… Poiché non occorre certo dire che le due zittelle erano estremamente divote…”

Compare a questo punto, quasi per caso, il vero eroe della storia, il cercopiteco Tombo, al capezzale della vecchia signora Marietta, madre delle zittelle, vero despota della casa, cui nemmeno una misteriosa malattia riesce a incrinare il piglio maestoso e terrorizzante. Nella descrizione della signora Marietta il grottesco del Landolfi vien fuori nelle sue più tragicomiche tinte, e spiace poterne qui ripercorrere solo pochi tratti. La donna, negli “ultimi tempi s’era ridotta un ceppo…” ma, sottolinea l’autore, “con tutto della morte fuorché il colore e l’inappetenza”, e continuava a impartire i suoi ordini pur nella paralisi quasi totale del suo corpo. Avendone il morbo, negli ultimi tempi, risparmiato solo gli avambracci, ella comunicava col resto della casa percuotendosi il petto “all’altezza circa delle scapole, e tale picchiamento rendeva un suono sordo e lugubre…”. 

Il cessare improvviso, una mattina, di quel toc toc, vera voce della casa, ormai, rende evidente la morte della vecchia. Ed è sul capo inanimato della donna, “un teschio baffuto e barbuto oltre ogni comune immaginazione…” che, “impazzita per la presenza del cadavere e calata a furia di sull’armadio, venne un momento a chinare il proprio viso difforme, con mugolii strazianti, la scimia.”, Tombo, appunto. 

Essa è quasi un simbolo per le zittelle, oltreché una presenza, giacché fu portata in Italia dal fratello, ufficiale di marina in Africa, poi defunto in terra straniera. La scimmietta è perciò loro particolarmente cara. Conviene a questo punto tralasciare la presentazione dettagliata dell’eroe, cui procede naturalmente il Landolfi, con il suo doppiogiochismo proverbiale, attribuendo alla scimmietta qualità e comportamenti quasi umani, come quegli occhietti “straordinariamente mobili” che “s’accendevano” – talvolta – “di spaventoso odio”, salvo palesarne subito dopo l’assurdità, giacché la scimia è un animale, “una creatura misteriosa”.

Entriamo perciò nel vivo della storia.

Le due zittelle di Tommaso Landolfi | Madamina, il catalogo è questo

Si presenta una mattina, a casa delle zittelle, la madre superiora dell’attiguo monastero, e, con aria prudente e circospetta, le informa che, nottetempo, la scimmietta è penetrata furtivamente nella cappella, per l’ennesima volta.

All’incredulità delle donne corrisponde la perplessità della suora, che tuttavia le invita a sorvegliare maggiormente, d’ora in poi, l’animale. Siccome nei giorni successivi le suore asseriscono essersi ripetuto il fatto, le zittelle, sebbene riluttanti, procedono a una sistematica osservazione delle mosse notturne di Tombo, peraltro quasi costantemente recluso in una gabbia. La scoperta è scioccante. Tombo ha imparato a liberarsi del pettorale che lo tiene legato a una catenella, e persino ad aprire la sua gabbietta con rocamboleschi artifici da monello. Non sospettando minimamente d’essere spiato, una notte si dirige proprio verso la cappella delle suore, scivolando lungo la grondaia e attraversando il cortile. Una delle donne, pur sgomenta, decide di seguirlo nascostamente e si apposta proprio nella cappella per osservare il seguito della scena. La verità è sconvolgente: Tombo – riferisce l’autore –diceva messa

Landolfi azzarda a questo punto un’ipotesi: Tombo aveva forse assistito all’officiarsi del rito, “magari più d’una volta”, giacché nascostamente s’avventurava nei pressi della cappella già da un po’, “finché una bella notte gli era venuta la fantasia di imitare quegli officianti”.

L’evidenza del fatto è una sorta di immane cataclisma per le zittelle. Il conflitto che ne deriva per le loro coscienze è lancinante. Giacché il peccato commesso è orrendo (la manomissione dell’altare, il rito blasfemo) urge addivenire a una composizione, benché la moralità di Tombo ne esca irrimediabilmente compromessa. 

Il dissidio delle zittelle, ormai già dolorosamente convinte della necessità di estinguere il crimine col massimo della pena, viene solo parzialmente sanato dalla pomposa predica di Monsignor Tostini (che si pronuncia per l’appunto a favore della condanna) grassa cariatide rappresentante in toto del bigottismo più becero. 

E la condanna viene finalmente decretata. Fra reciproci imbarazzi e lacrimevoli professioni di impotenza, le zittelle si risolvono all’esecuzione.

Si tratta di una scena sconvolgente, intrisa – dopo il funambolismo grottesco che fin qui ha contraddistinto ogni nota – di un pathos difficilmente ravvisabile altrove. La morte di Tombo si colora di commozione e di silenzio, il silenzio e il rispetto che solitamente si tributano alla morte degli umani. Tombo è – nella sua impotenza di animale – “intimamente abbandonato…” nonostante il terrore e lo sgomento che lo invadono, a “quelle volontà più forti della sua.”

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è image.jpeg

Ma a questo punto conviene fermarsi. Le chiavi offerte sono ormai sufficienti per invogliare a una lettura, o rilettura, di questo appartato scrittore, Tommaso Landolfi. La sua intima scorrettezza, la sua politica così poco garbata, il suo desueto lessico di dialettismi e arcaismi, valgano a ristorarci, e, perché no?, a sanarci anche dagli ammorbanti miasmi di tanti decrepiti comunicatori sanremesi e imbonitori televisivi.

Read Full Post »

Elisa Bondavalli © febbraio 2021

Questa è la storia di Limpo e di come un giorno riuscì ad avere il suo frac; e se il vostro maestro per caso vi dovesse dire che è una storia un po’ strana e che queste cose non capitano mai, ebbene, tanto peggio per lui, mi dispiace. Tutto quel che vi resta da fare, ragazzi, è di cambiare senz’altro maestro. E di dirgli di aprire più gli occhi./ Ma voi intanto aprite bene le orecchie. Ecco qui.

Il pinguino senza frac e tobby in prigione | 962

Con questo disinvolto e accattivante incipit, D’Arzo invita i lettori più giovani a sospendere l’incredulità e ad abbandonarsi senza remore alla sua narrazione. D’altra parte, già il suo editore Vallecchi, con felice intuizione, gli scriveva: “Con la vostra fantasia, che si accende anche nelle occasioni più modeste, mi sembra che potreste riuscire brillantemente anche nel settore della letteratura infantile1.

Sicuramente non si sbagliava, visto che Comparoni (questo il vero nome dello scrittore), ci ha regalato tre proveoriginalissime per intreccio e soluzioni linguistiche. Che poi lui non considerasse la narrativa per l’infanzia un genere minore e non intendesse comporre semplici intrattenimenti per bambini, è cosa nota già a partire dal suo saggio critico Kipling senza trombe 2, dove afferma che scrittori come James Barry e Charles Kingsley, con le loro due favole, hanno raggiunto i loro risultati più alti e duraturi.

E a conferma di ciò, scrive a Vallecchi: “[…] E poi ho scritto un breve libro per ragazzi, che, ti giuro, mi ha divertito e riposato assai: Il pinguino senza frac […] Questa storia, dico, scritta per ragazzi, mi ha servito a chiarire molte cose”3.

Il racconto ha quindi come protagonista il piccolo Limpo, troppo povero per avere come gli altri pinguini un frac (ancora in controluce il motivo autobiografico), per cui viene emarginato e allontanato da scuola. Decide così di abbandonare i genitori e andare in cerca di fortuna lontano da casa. Forestiero ovunque e senza nome, chiamato “Cosa sei”, “Tutto un po’”, Suppergiù” da gabbiani, foche e trichechi, con cui intrattiene varie attività commerciali, a poco a poco comincia a mettere da parte i soldi per comprarsi la tanto sospirata marsina. Ad un certo punto, però, si rende conto che il denaro non basta, gli occorre anche un’istruzione: “Ma che sciocco! Che sciocco – pensò Limpo. Mentre io me ne sto qui a lavorare dalla mattina alla sera, gli altri intanto se ne vanno a scuola ogni giorno, e finisce così che s’imparano un bel mucchio di cose. Così io, quando potrò finalmente tornare e, magari, comprare anche il mio frac, farò ridere tutti lo stesso4.

Cambia pertanto sistema e quando foca, tricheco, renna, pinguino, gabbiano gli vogliono pagare quel che gli devono, lui ne prende la metà e dice. “Tenetevi pure il resto, signori. Sciocchezze… Semmai, quando ne avrete il tempo e la voglia, mi favorirete di dirmi perché…5. Così Limpo inizia il suo percorso verso la conoscenza: passano i mesi, mentre il pinguino apprende sempre di più, fino a quando quasi si sente pronto per tornare a casa. Gli resta, però, da scoprire un’ultima cosa.

Si chiede infatti perché il solo orso, tra tutti gli animali, sia esente dal dolore e dalla paura. Indubbiamente – si dice – perché è un essere forte e invincibile, temuto da tutti. Un giorno, però, lo stesso orso incontra la morte per mano di un animale ancor più terribile, l’uomo, a cui basta alzare le braccia per uccidere: “Il grande Orso spiccò un balzo in avanti e poi cadde sulla campagna di neve: si agitò, si contorse, diede un ultimo urlo tremendo, e poi si distese. Era morto. Attorno al suo corpo la neve cominciò a tingersi tutta di rosso. I quattro orsacchiotti cominciarono a piangere. Lo annusavano, lo leccavano da tutte le parti, gli soffiavano dolcemente sul muso […]. Dal crepaccio del monte uscirono quattro o cinque uomini guidando una slitta e dei cani: si presero i quattro orsacchiotti, legarono per le zampe il grande Orso e se lo trascinarono via6.

Tutti gli altri animali festeggiano la scomparsa del grande nemico: ballano tutta la notte, cantano, urlano e fanno chiasso. Solo Limpo sta in disparte, turbato, e ripete fra sé e sé: “Ma Dio mio… ma Dio Mio. Quei quattro orsacchiotti che voce…”7.

Pensa allora che sia l’uomo il solo essere vivente esente dal dolore, ma un giorno anche lui trova la morte a causa di una forza superiore, in questo caso quella della Natura sotto forma di tempesta. “Sulla riva un gruppo di uomini guardava laggiù, in mezzo al mare. E in mezzo al mare, ma fissando ben bene, Limpo finalmente riuscì a vedere un altr’uomo. Le onde, nere o azzurre o verdastre, lo scagliavano da una parte e dall’altra; due, tre volte, e poi dieci e anche di più, e l’uomo spariva, appariva, spariva; e via ancora così.

Dalla riva gli uomini non distoglievano un momento gli occhi da lui e anche Limpo non faceva che guardare e guardare. 

All’improvviso, due o tre ondate giganti si alzarono e poi si abbatterono subito; e poi niente: e poi ancora niente; e infine anche il mare si venne a poco a poco calmando. E adesso era proprio come ogni giorno. E l’uomo, ecco, era sparito.

– Che cosa curiosa, però. Come l’orso, – disse Limpo. Anche questa non me la sarei mai immaginata mai e mai. Anche “lui” è morto così; come l’orso.

In mezzo al gruppo di uomini due o tre piccoli si misero a piangere.8

Di nuovo gli altri animali fanno festa, perché anche l’ultimo nemico, il più terribile, è stato eliminato. Limpo, invece, entra in una crisi profonda (ma la crisi, come ci ricorda Pasolini, è sempre una forma di salvezza) al punto che rischia di ammalarsi, di diventare pazzo, tanto è traumatico quello che ha visto: “Sì… sì. È proprio così. Quei poveri piccoli d’uomo, però, – pensava Limpo con grande tristezza, – la stessa voce dei piccoli d’orso… E dei piccoli di foca e gabbiano e pinguino e di tutti…9.

Limpo completa così il suo percorso conoscitivo nel momento in cui comprende che la sofferenza è la legge stessa dell’universo e nessun essere vivente ne è immune. La sua formazione, di fatto, si conclude qui, anche se lui ancora non ne è pienamente consapevole. Avvilito e senza nemmeno il frac, decide che è comunque ora di avviarsi verso casa. 

Il pinguino senza frac - un'edizione di lusso

Anche perché non ha più niente da condividere con l’ambiente circostante: le morti a cui ha assistito, anziché rallegrarlo, come succede a tutti gli altri, lo gettano nello sconforto più nero, avendone intuito la valenza universale.Solo lui, il pinguino, per usare le parole dello stesso Leopardi, ha ormai “il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza […] e accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera”10.

Se gli animali intorno a lui vivono in maniera inconsapevole le dure leggi dell’universo e non arrivano a comprenderne la portata, Limpo, altro straordinario straniero darziano, approda invece a una consapevolezza lucida dei meccanismi di una realtà tragica quanto immodificabile. In questo senso risulta essere il doppio del prete di Casa d’altri (peraltro i due racconti sono coevi), che non solo patisce il dramma della vecchia Zelinda, ma lo universalizza, consapevole che la vita è sempre condizione di precarietà ed estraneità e il mondo è una dimora che non è stata creata per noi, per tornare ancora al Leopardi del Dialogo della Natura. È una casa d’altri, per l’appunto. Il merito di aver capito, l’approdo a quel sentimento virile della vita (di cui D’Arzo parla a proposito di Maupassant) distinguono quindi il pinguino dalla società in cui vive: non per niente, una volta tornato a casa, si accorge di avere indosso l’ambito frac: “il più morbido e bello e distinto e elegante e lucente che fosse mai dato vedere: un frac da domenica; proprio con la catena dell’orologio per giunta”. È la conquista della dignità, di cui il frac è evidente correlativo oggettivo: “e tutti gli altri erano poveri e goffi, e al confronto facevano pena. Non valevano l’ombra di un soldo11.

Torna al Teatro Biondo ''Il pinguino senza frac'': una fiaba moderna per  adulti e bambini | Giornale Cittadino Press

NOTA DELL’AUTRICE: Questo è il testo preparatorio al mio breve intervento per il comune di Montecchio Emilia in occasione dell’anniversario darziano del 6 febbraio 2021. Chi fosse interessato può trovarlo qui sotto.

1Silvio D’Arzo- Enrico Vallecchi, Carteggio 1941-1951. Contributi annoVIII 1984, nn.15-16 Biblioteca A. Panizzi, di Reggio Emilia, Mucchi editore, Modena, 1984, lettera n. 31 di Vallecchi, pag. 72. Ora in Lettere, MUP, Parma, 2004, pag.39.

2Kipling senza trombe, in Contea inglese, a cura di Eraldo Affinati, Sellerio, Palermo, 1987

3Cfr. Carteggio D’Arzo- Vallecchi, lettera n.119; edizione MUP, pag.174

4Silvio D’Arzo, Il pinguino senza frac e Tobby in prigione. Illustrazioni di Alberto Manfredi, Einaudi, 1983; pag.26.

5Ibidem, pag.26.

6Silvio D’Arzo, Il pinguino senza frac e Tobby in prigione. Illustrazioni di Alberto Manfredi, Einaudi, 1983; pag.32

7Ibidem, pag.35.

8Ibidem, pag.39.

9 Ibidem, pag.40

10Giacomo Leopardi, Operette morali, Dialogo di Tristano e di un amico, Bur, 2008.

11Ibidem, pag. 50.

Read Full Post »

di Andrea Chesi

Tutta, o quasi, l’esile produzione narrativa di Arturo Loria pare contrassegnata da un gioco intrigante che intesse la scrittura di gangli metaforici impreveduti e bizzarri, cui il lettore si imbatte quasi con fastidio, prima di abbandonarsi , una volta vinto dal manierismo cromatico delle assimilazioni, al fluire accattivante della storia.

Ciò non toglie che il “metaforismo spinto” e l’iterazione delle analogie spiazzanti rendano la lettura irta di ostacoli, nella corsa, però, di chi – proprio per quella stravaganza fatta di colori picareschi e sgargianti – intuisca alla fine un premio di gran lunga maggiore.

Loria, Arturo — Sheep Meadow Press

E il premio indubbiamente arriva, puntuale, svelando quel “senso di esultanza” di cui parlava Northrop Frye nel suo Anatomia della critica, quello che si avverte quando, ancorché affaticati per l’impegno richiesto, ci si sente grati, appagati da quell’esperienza.

Basta rileggere le prime condensatissime righe che aprono il racconto Il caffè arabo:

Il padrone era solo nel caffè. Seduto sullo scranno della cassa volgeva lo sguardo triste per gli scomparti e le nicchie della sala dove qualche tavolo vuoto, passato a lustro da un riflesso, attirava il suo affisamento desideroso di annegar nei primi evanescenti miracoli di una immagine sconosciuta. Ma al più lieve spostar del capo l’ombra di una delle tante colonnine arabe che scendevano dall’alto come per uno sgocciolamento del soffitto o quello di un archetto a doppia fila di denti gialli, avvelenati in punta da tocchi di azzurro cupo, s’allungava sul piano lacustre della luce, riconoscibilmente, così che ogni tentativo di perdersi in uno specchio insolito restava deluso.

E’ questo il benvenuto dato al lettore che si accinge alla lettura del libro forse più maturo e riuscito del narratore carpigiano: La scuola di ballo, dal titolo del racconto che conclude la raccolta. E l’impressione, ancora una volta, è quella di perdersi nelle iridescenze di una scrittura le cui tortuosità ipnotiche accarezzano e promettono, per poi lasciarci in bilico sul vuoto di uno sfondo grigio, dove nausea e malessere decantano inesorabili oltre la superficie di quel luccichio. 

La scuola di ballo - Arturo Loria - Libro Usato - Sellerio Editore Palermo  - Il castello | IBS

Anche i racconti successivi confermano l’impressione iniziale, e il lettore scivola pian piano, affascinato, nel labirinto di vite marginali e sbandate, sempre attraverso la tessitura delle analogie e dei colori, sbattendo poi inesorabilmente nella sensazione struggente dello smarrimento e dell’abbandono.

Si legga, ancora, questo passo tratto dal racconto La casa ritinta (dove già il titolo si presenta come non trascurabile indizio…):

La facciata rosa beveva il sole del tramonto che l’arricchiva e l’espandeva rossastra fuori dall’altre case smorte e bene allineate. Il sole, rappreso pallone di fiamma, batteva in pieno sui vetri di una finestra resa cieca, ma così incandescente che gli occhi non ne sopportavano l’abbaglio. L’altre finestrelle al paragone eran buchi nel muro mal quadrati da una crocetta di legno. Chi passava, levava il capo verso quella luce dorata, stupito di trovarla in città, in una strada triste e remota, poi s’accorgeva della coppia immobile, di lei così bella, e proseguiva ironico, pensando ai rischi che ha un marito troppo poetico: egli, pallido in viso, aveva lo sguardo incantato sulle pietre, gli spigoli e i davanzali, ricchi di un fuoco intimo e dolce di ferro rosso che si spegne.

A maggior ragione, quindi, dopo il campionario caleidoscopico delle immagini che insistentemente séguita ad accompagnare la scrittura, singolarmente risalta il racconto finale, La scuola di ballo, dove alla rarefazione (non esclusione, si badi) dell’impressionismo cromatico così presente altrove, fa da contraltare il plasmarsi di una figura che ci appare, pian piano – nel dibattersi del suo animo e nella tenerezza che ci ispira – sempre più vicina e famigliare: quella di Amina, la protagonista della storia. 

Il racconto si staglia nel libro come la figura di Amina nel contesto inerte dell’ambientazione.

Ultima di quattro sorelle soggiogate da una madre autoritaria – che ha fatto della vocazione musicale l’imperativo di una morale rinsecchita – Amina vive con le quattro donne, padrona di sé, insorvegliata. Si sottrae al controllo della madre e prova compassione per le sorelle, che si sciupavano il collo a sfregarlo contro la fascia del violino. Madre e sorelle, peraltro, sfogano di frequente il proprio malumore nei confronti della ragazza, quasi rassegnate all’avvento inesorabile – per lei – di qualche brutta novità , certo molto probabile dato un comportamento così scontroso e trasgressivo. Ma, fa notare l’autore, Forse la punivano d’esser lei sola a dare il senso di una vita carnale, d’apparire come un frutto pieno e sugoso tra noci e mandorle secche.

E il racconto procede attraverso un itinerario di “formazione”, oppure, forse – data l’inventiva straordinaria dell’autore e la sua repulsione verso forme di riscatto che darebbero sollievo al lettore, ma priverebbero la storia delle cicatrici e delle ferite che il dolore porta con sé – di abbandono e di resa , nello scioglimento greve del finale, dove Amina, al capezzale della vecchia maestra di ballo che si spegne pian piano, raccoglie un testamento di parole ambigue e sprofonda sfinita nel sonno.

Vale la pena di passare in rassegna alcune delle figure che Amina incontra nel suo percorso.

La prima è un’allieva di canto della madre, si chiama Carmen, ed è l’unica che Amina guardi con simpatia. E’ la sua straordinaria disinvoltura ad attrarla, la sua voracità nei confronti della vita, che non le ha impedito, per proseguire gli studi, di trovare un parente generoso che l’aiuti. E’ lei che parla ad Amina della scuola di ballo. 

Amina vorrebbe assomigliarle, vorrebbe condividere almeno un po’ di quella sufficienza bonariamente cinica che le permette di scivolare sulle cose senza ferirsi, ma desiderio e curiosità non le permettono di rendere se stessa svagata e immemore quanto l’amica. Ed è per questo che il lettore prova quel misto di tenerezza e di affetto per Amina, che nella perplessità inconscia verso la spregiudicatezza innocente di Carmen rivela la profondità e la bellezza di un animo delicato e sensibile, tremendamente in debito d’affetto.

Lo studente di chimica- violoncellista – che fa la sua comparsa in casa di Amina, a tutta prima le sembra orrendo. Ma il carisma del giovane, la padronanza dello strumento e la personalità sicura finiscono per soggiogare le sorelle maggiori – che intuiscono in lui un senso di vita e di calore mai provato prima – e la stessa Amina, che, da quello sfondo inanimato, si affaccia cautamente sul mondo piena di curiosità.

Ben presta finirà fra le sue braccia, risoluta nel darsi a chi le parso diverso, per poi meditare sull’errore commesso a darsi a lui che non aveva parlato d’amore. Ciononostante, divenuta spregiatrice di se medesima, mantiene una persuasione tale, nel darsi, da sbalordire l’amante, in realtà per seguirlo in quella strada d’egoismo, convincersi d’essere senza amore per lui.

Ma il disincanto le pesa terribilmente, tanto da farle invidiare la vita morta delle sorelle, così decide di incrementare la sua frequenza alla scuola di ballo, dove ha ormai ricevuto l’incarico di aiutare la maestra nell’insegnamento, sperando così di impegnare tutta se stessa in qualcosa che la distragga e la ristori. Ed è a questo punto che entra in scena il signor Muzio, nipote della maestra di ballo, e la sua apparizione sprigiona una luce squallida e cupa.

Il signor Muzio ha circa quarant’anni: la sua bruttezza, mischiata a un atteggiamento totalmente privo di grazia, inopportuno e ripugnante nello sforzo maldestro di apparire buono e pietoso, ha qualcosa di sinistro. Vale la pena di riportare le parole dello scrittore, che descrive le viscide prove di corteggiamento del signor Muzio in questo modo: Amina s’era accorta con inimicizia e disprezzo che egli aveva iniziativa solo con ragazze rattristate o deluse di essersi concesse a degli egoisti senza amore (…) Si contentava d’avanzi, per esser più facile l’averli e forse anche per la coscienza di non meritare di più.

Su «La scuola di ballo» di Arturo Loria - Altri Animali

A ciò si aggiunge il comportamento insinuante e volgare di una sorella della maestra, lurida e servile, che, ben conscia dell’attrazione che il nipote nutre per Amina, e insieme della vulnerabilità della ragazza, ferita dallo studente di chimica, cerca di spingerla fra le braccia di lui: Cara, cara signorina Amina, il mondo è di chi sa prenderselo. Goda, ora ch’è giovane; goda, tanto il primo che capita non è peggiore di quello scelto con tutte le precauzioni. Un rimedio c’è a tutto: basta adattarsi un poco.

Scivolando verso il finale il lettore si trova quasi a pregare per il cuore grande di Amina, affinché la protagonista della storia riesca a salvarsi dagli artigli di un mondo che vorrebbe trascinarla nella propria melma di insensibilità e di squallore. Si invoca, nel precipizio degli ultimi eventi, una salvezza in extremis, sperando che nelle parole della maestra morente – colei che da subito ha stimato e benvoluto Amina – si celi il bandolo di una residua solarità.

ARTURO LORIA LA SCUOLA DI BALLO VALLECCHI 1986 | eBay

Ma la magia narrativa di Loria e la sua esperienza dell’umano riescono, ancora una volta, a spiazzarci. Accanto allo sfinimento di Amina dormiente col capo abbandonato sul letto, che ha appena recepito l’ultimo inaspettato appello della maestra, si accompagna lo sguardo smarrito della vecchia che attende la morte: con la dura espressione di chi non riconosce più chi gli sta intorno ed è solo con le più tremende paure dell’attesa.

Read Full Post »

« Newer Posts - Older Posts »

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: