di Andrea Chesi
Riesce ancora assai difficile, pur dopo tanti anni dalla sua pubblicazione (postuma, era il 1976) trovare parentele, somiglianze, ascendenze per un libro come Essi pensano ad altro, marcatamente defilato, al di là delle apparenze, nel panorama letterario degli anni in cui fu scritto (i primi anni Quaranta).
Certo, la prosa d’arte, una tendenza a narrazioni brevi, le atmosfere rarefatte, ma queste non sono che generiche coordinate di una – diciamo pure – moda – entro la quale lo scrittore emiliano ha definito una sua personalissima posizione, difficilmente assimilabile a quella di altri narratori coevi cui pure D’Arzo affermava d’ispirarsi.
In una lettera all’editore Vallecchi, lo scrittore, rievocando quei primi anni di apprendistato letterario, e come a volersi scusare di certe giovanili ingenuità, attribuisce all’influenza di narratori come Bonsanti e Landolfi la carenza di realismo di quei primi libri, dai quali sembra volere sempre più risolutamente prendere le distanze. Ma, a ben vedere, in quei primi libri darziani non v’è traccia della bonomia un po’ dolciastra di un narratore probabilmente allora assai sopravvalutato come Bonsanti , e nemmeno, d’altro canto, si trovano le suggestioni a volte sinistre, a volte macabre, o i frequenti inserti di grottesco di un maestro come Landolfi. Risulta pertanto arduo individuare modelli precisi.
Andrebbe peraltro indagato in modo sistematico lo stile di quei libri (indicazioni importanti in merito si trovano nel volume Silvio D’Arzo, lo straniero, di Elisa Bondavalli) analisi che probabilmente riserverebbe più di una sorpresa.
Nel caso di Essi pensano ad altro, ad ogni modo, anche dopo una prima lettura è facile notare una prevalenza della paratassi, l’utilizzo quasi sistematico del polisindeto (… ma pensava a Piàdeni e alle sue parole e alla sua casa…, oppure: senza stupore e nemmeno indulgenza o forse pietà…) cui fa quasi da contrappunto, a tratti, in assenza della congiunzione coordinativa, l’eliminazione delle virgole fra coppie di aggettivi o sostantivi allineati (…una specie di bianco rosso e giallo…, e, qualche pagina più avanti: …una sottana nera una camicetta grigia due occhi grigi…) quasi a sottintendere l’immobilità, o, al limite, l’estrema e quindi effimera mutevolezza di uno sguardo che può solo accarezzare le cose senza viverle e possederle. Ne deriva un battito vagamente ipnotico, un ritmo disgregato – accentuato, fra l’altro, dal ricorso alle frequentissime formule dubitative.
Più dell’influenza di altri narratori, un corrispettivo interessante di questa prosa, le cui percezioni sembrano avere smarrito quasi del tutto gli ordini e le gerarchie, potrebbero essere le sperimentazioni musicali di quei compositori che, qualche decennio innanzi, prima dell’infrazione definitiva dell’atonalità o della dodecafonia, avevano plasmato l’armonia con una libertà sconosciuta ai decenni precedenti, creando sequenze di note svincolate da gerarchie rigorose, come nelle atmosfere duttili e irrisolte delle melodie pianistiche di Debussy.
Basta aprire a caso il libro per imbattersi nel proverbiale “impressionismo” darziano, nello scivolamento liquido delle parole, nella formula immateriale che pervade la scrittura. Il tutto collocato in una multiformità di oggetti cui gli effetti di rimpicciolimento o di zoom (“Ogni cosa del resto nella stanza appariva di proporzioni enormi… Vaste gocce macchiarono di nuovo il pavimento…”) non riescono a dare concretezza o rilievo.
Del resto, mutando ancora prospettiva, se un’altra definizione si volesse coniare per questo stile così personale, si potrebbe mutuare dalla poesia italiana degli anni Dieci o Venti. Questa dell’Essi pensano ad altro è forse una narrativa crepuscolare. Si legga questo passo:
Anche le botteghe dei carbonai, una topa morta a ventre in su fra l’immondizia ed un cieco seduto su uno sgabello a sentire quel ricordo di sole sulle facciate, erano silenzi o modi del silenzio, e un soldato di fanteria, che camminava senza risoluzione o meta in quel momento, stonava incredibilmente nella strada coi chiodi delle scarpe sopra le pietre (pag.114).
O ancora:
Guardò allora la bambina in prima fila, vestita in maniera strana o inverosimile, come se tutto il grigio e la malinconia e l’odor morto delle chiese e dei cortili con l’erba in mezzo ai sassi, e forse anche di angoli di caserme o di distretti, si fossero posati sui suoi capelli e vestiti, e dentro lei : tanto che, nel sorridere nel parlare e nel respirare stesso, ne usciva soltanto tristezza desolata di caserma, di vespro, di domenica sera sette e un quarto… (pag. 80).
Il disadorno squallore dei luoghi, la rappresentazione di un quotidiano intriso di immobilità e inerzia sono aspetti fondanti della poetica crepuscolare, più Corazzini che Gozzano, o, al limite, un Gozzano al netto di ogni ironia e col pedale dell’acceleratore spinto drasticamente verso un senso acuto di nausea e di disagio. Non dimentichiamo che il minimalismo della poesia crepuscolare (illustre precedente, per molti aspetti, le Mirycae pascoliane) ha smarrito centri di gravità e principi ordinatori, e il tutto, nella sua stralunata sussistenza, permette coesistenze impensabili nella letteratura precedente. La giustapposizione degli oggetti, nella poetica darziana, riflette questa stessa disgregazione, che è tutt’uno con l’oltranza paratattica della scrittura.
E comunque, ogni rilettura di questo libro continua a spiazzare.
Tornano a riecheggiare le parole dell’editore che rifiutò il manoscritto – in una lettera in cui, peraltro, ne sottolineava l’originalità – come a rimarcare l’imbarazzo di chi riconosce una grandezza difficile da collocare. È come percepire la difficoltà di maneggiare un oggetto luccicante e misterioso, a suo modo sbagliato e ingombrante, perché nella libreria ideale della nostra mente qualunque posto, ancorché spazioso, assume connotati geometricamente troppo familiari e, perciò, inadatti a un oggetto il cui simbolismo scivoloso recalcitra ad ogni sistemazione.
Come ho fatto notare in un saggio di alcuni anni fa, la magrezza quasi surreale di Riccardo, la sua angosciosa ricerca di un altrove, alludono a una condizione di dolorosa evanescenza che i protagonisti, senza riuscirci, cercano di estremizzare. Nello sforzo di trovare una casa situata molto in alto e nel sogno quasi psicotico di una vita fatta di animali liberi per la casa e di musica notturna, senza orario, essi vorrebbero perseguire il riscatto impossibile di una “perfezione alla rovescia”.
La breve analisi ha certamente sparigliato le carte, confermando l’essenza sdrucciolevole di un libro affascinante, per molti aspetti ancora catafratto nel suo mistero.
Trascendenza, infanzia, rarefazione: conclusione
Posted in commenti, letture critiche, scrittori reggiani, tagged Buon corsiero, Casa d'altri, Il castello, Kafka, la lettera, Silvio D'Arzo, Zelinda on 8 Maggio 2014| Leave a Comment »
Riporto, per concludere, il testo di una nota, abbastanza lungo, che avevo inserito nel saggio quando lo presentai al mio relatore. Mi sembra un’integrazione funzionale al discorso fatto fin qui.
A partire dalle primissime pagine del Buon corsiero, già molti meccanismi sono avviati che si riveleranno fondamentali nel corso della lettura.
L’arrivo della Marchesa innesca le reazioni dei servi e caratterizza una situazione esemplare. Mentre tutti si danno da fare, la giovane donna nota un particolarissimo senso di agitazione che anima il cortile, e poco dopo interroga Lauretta e un servo per saperne la causa. Alla domanda della Marchesa la ragazza risponde con infantile determinazione che in paese si sta per esibire il funambolista, e la notizia viene accompagnata da una serie di minute spiegazioni che denotano l’assoluta singolarità che l’evento assume nella mente della gente. Il servo, poi, conclude il racconto affermando di avere scommesso quindici scudi con Sertorio che il funambolo riuscirà ad attraversare, e lo stupore, scrive D’Arzo, finisce per entrare nella Marchesa come una dolce malattia; infine, a un tratto, tutta la locanda piomba nel silenzio magico e inquietante che da questo momento in poi accompagnerà tutte le entrate in scena dell’uomo in viola. Lauretta, poi, richiesta dalla Marchesa, scende le scale e si dirige nel cortile per scoprire la causa dell’improvviso mutamento. Appena fuori dell’uscio, sul corridoio, incontra Lelio, impegnato in maniera assolutamente sproporzionata alla bisogna, nel lucidare le staffe di una sella, allo scopo evidente di giustificare la sua presenza nel luogo in cui avrebbe potuto al più presto vedere la ragazza. Mentre la locanda seguita ad essere immersa in un silenzio irreale, si svolge il dialogo fra i due. Lelio aggredisce, o quasi, Lauretta, afferrandola per le spalle e chiedendole ansiosamente la conferma della notizia ricevuta casualmente e indirettamente, quella mattina, del matrimonio della sorella di Lauretta, che vorrebbe dire, per i due giovani, la possibilità di sposarsi al più presto a loro volta. Ma tutta l’audacia improvvisa di Lelio non è sufficiente a scuotere veramente la ragazza, distratta da quel silenzio e già misteriosamente attratta da tutto ciò che quel silenzio sembra promettere e rappresentare. Non senti questo silenzio?, taglia corto, a un tratto, Lauretta; poi, senza attendere risposta, scivola veloce giù dalle scale. Nel cortile è entrato il funambolo, e la sensazione comune, annota lo scrittore, è di totale sospensione del tempo, pur nella consapevolezza, da parte di tutti, di quanto ciò sia eccessivo e inadeguato rispetto al pensiero di una pur straordinaria esibizione.
In ultimo, a riprova delle somiglianze emerse – pur con le dovute proporzioni – fra il mondo dello scrittore reggiano e certe soluzioni ricorrenti nella narrativa kafkiana, vorrei citare queste parole, tratte da una lettera scritta a Enrico Vallecchi, del 26 dicembre 1948, con cui D’Arzo definisce sinteticamente Il castello di Kafka: … la lettera che non viene mai, la chiamata che si aspetta e non arriva.
La frase – dovrebbe venire in mente subito a tutti coloro che conoscono le opere dello scrittore reggiano – si potrebbe attribuire senza troppe forzature anche al suo Casa d’altri.
Ci sono, citati con essenzialità, gli stessi ingredienti.
Il tema della chiamata, prima di tutto ( non c’è dubbio che il prete si senta convocato a un appuntamento di importanza decisiva, che diventa ben presto esclusivo) che ha assunto nella narrativa novecentesca una portata allegorica non comune, specialmente con Kafka e nell’ambito della letteratura più vicina all’esistenzialismo.
E poi la lettera, uno degli strumenti e anche dei simboli della chiamata. Per alcuni aspetti succede, in Casa d’altri, anche se molto più in piccolo, come nei romanzi di Kafka. Gli indizi si moltiplicano, ma questo non fa che aumentare il turbamento, l’attesa, la confusione. C’è la lettera, appunto, che Zelinda porta e si affretta poco dopo a riprendere senza che il parroco possa leggerla, che irrita e accresce la sua irrazionale e ossessiva necessità di sapere, e molti altri minimi segni di intesa, offerte, indecisioni, che non fanno che infittire il mistero. Il prete si sente chiamato in causa con un’urgenza che supera la sua tentazione di tacere, di ritirarsi di fronte a un problema che sa di non poter risolvere; tutte le risposte che gli vengono alle labbra, infatti, sono tragicamente inutili: in realtà non fanno che ripresentare e confermare la domanda.
Il racconto si chiude su questo interrogativo. Come ha scritto Paolo Lagazzi, disponiamo solo della terribile domanda centrale, e di una storia che si chiude circolarmente intorno ad essa senza alcuna apertura ad altri spazi, ad altri sensi.
La domanda della Zelinda è della medesima specie di quelle terribili di cui parla Kafka nel passo che ho riportato dai suoi Diari: un puro segno.
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