INVITO ALLA LETTURA: LE DUE ZITTELLE DI TOMMASO LANDOLFI
di Andrea Chesi © 2021
“In uno scuorante quartiere d’una città essa medesima per tanti versi scuorante…”. Comincia così quello che Tommaso Landolfi definì il suo migliore racconto. E già in quel primo aggettivo, scuorante, per ben due volte ripetuto, il lettore comincia a intravedere quella diffusa polverina grigia, a presentire quell’odore di stantìo e di muffa che impregna di sé ogni ambiente, ogni oggetto e persona dello scarno libretto. Prima di entrare nella fase più narrativa della storia, l’autore imprende una quasi ossessiva descrizione del luogo in cui essa si svolge, dando il via a un procedimento di accorte divaricazioni fra preliminari dichiarazioni di intenti e svolgimenti successivi puntualmente discordanti, connotandosi, di già, nelle sue scanzonate strategie, pur se ancora di una causticità in sordina. Così, infatti, l’abbrivio:
“E buon per il lettore ch’io non sento il dovere … di descrivere minutamente simili luoghi … dunque cercherò di limitarmi qui ai cenni strettamente indispensabili…”
Ma il seguito è al contrario un climax descrittivo che pian piano nulla ci risparmia, e il quartiere dove “le due zittelle” (come recita il titolo del libro, con snobistica cura dell’autore di scrivere la doppia t per riferimento al falso etimo zitte) hanno la loro casa, è disvelato nei suoi più incresciosi simboli di grettezza e di squallore.
Dall’avara e polverosa chioma di qualche albero, “eucalitti chissà o altri eunuchi vegetali”, dalla “vaga aria di… reazione”, dall’ “odor di moccoli e di panni sporchi”, del rione, siamo condotti dentro all’appartamento delle zittelle, le cui anguste stanze vengono scandagliate dall’onnivora pignoleria dell’autore, che si sofferma infine sul ben poco invitante aspetto delle due inquiline, sui cui visi, oltre che “nei solchi fra le pinne del naso e le guance… stagnava perennemente un denso sudore, simile a sego.”

Completa questa prima parte la presentazione di alcuni grigi individui che sono soliti frequentare la casa delle due donne, personaggi perlopiù decrepiti e scuoranti, appunto, oltre a “un discreto numero di monache, frati, preti, diaconi e simigliante compagnia… Poiché non occorre certo dire che le due zittelle erano estremamente divote…”
Compare a questo punto, quasi per caso, il vero eroe della storia, il cercopiteco Tombo, al capezzale della vecchia signora Marietta, madre delle zittelle, vero despota della casa, cui nemmeno una misteriosa malattia riesce a incrinare il piglio maestoso e terrorizzante. Nella descrizione della signora Marietta il grottesco del Landolfi vien fuori nelle sue più tragicomiche tinte, e spiace poterne qui ripercorrere solo pochi tratti. La donna, negli “ultimi tempi s’era ridotta un ceppo…” ma, sottolinea l’autore, “con tutto della morte fuorché il colore e l’inappetenza”, e continuava a impartire i suoi ordini pur nella paralisi quasi totale del suo corpo. Avendone il morbo, negli ultimi tempi, risparmiato solo gli avambracci, ella comunicava col resto della casa percuotendosi il petto “all’altezza circa delle scapole, e tale picchiamento rendeva un suono sordo e lugubre…”.
Il cessare improvviso, una mattina, di quel toc toc, vera voce della casa, ormai, rende evidente la morte della vecchia. Ed è sul capo inanimato della donna, “un teschio baffuto e barbuto oltre ogni comune immaginazione…” che, “impazzita per la presenza del cadavere e calata a furia di sull’armadio, venne un momento a chinare il proprio viso difforme, con mugolii strazianti, la scimia.”, Tombo, appunto.
Essa è quasi un simbolo per le zittelle, oltreché una presenza, giacché fu portata in Italia dal fratello, ufficiale di marina in Africa, poi defunto in terra straniera. La scimmietta è perciò loro particolarmente cara. Conviene a questo punto tralasciare la presentazione dettagliata dell’eroe, cui procede naturalmente il Landolfi, con il suo doppiogiochismo proverbiale, attribuendo alla scimmietta qualità e comportamenti quasi umani, come quegli occhietti “straordinariamente mobili” che “s’accendevano” – talvolta – “di spaventoso odio”, salvo palesarne subito dopo l’assurdità, giacché la scimia è un animale, “una creatura misteriosa”.
Entriamo perciò nel vivo della storia.
Si presenta una mattina, a casa delle zittelle, la madre superiora dell’attiguo monastero, e, con aria prudente e circospetta, le informa che, nottetempo, la scimmietta è penetrata furtivamente nella cappella, per l’ennesima volta.
All’incredulità delle donne corrisponde la perplessità della suora, che tuttavia le invita a sorvegliare maggiormente, d’ora in poi, l’animale. Siccome nei giorni successivi le suore asseriscono essersi ripetuto il fatto, le zittelle, sebbene riluttanti, procedono a una sistematica osservazione delle mosse notturne di Tombo, peraltro quasi costantemente recluso in una gabbia. La scoperta è scioccante. Tombo ha imparato a liberarsi del pettorale che lo tiene legato a una catenella, e persino ad aprire la sua gabbietta con rocamboleschi artifici da monello. Non sospettando minimamente d’essere spiato, una notte si dirige proprio verso la cappella delle suore, scivolando lungo la grondaia e attraversando il cortile. Una delle donne, pur sgomenta, decide di seguirlo nascostamente e si apposta proprio nella cappella per osservare il seguito della scena. La verità è sconvolgente: Tombo – riferisce l’autore –diceva messa.
Landolfi azzarda a questo punto un’ipotesi: Tombo aveva forse assistito all’officiarsi del rito, “magari più d’una volta”, giacché nascostamente s’avventurava nei pressi della cappella già da un po’, “finché una bella notte gli era venuta la fantasia di imitare quegli officianti”.
L’evidenza del fatto è una sorta di immane cataclisma per le zittelle. Il conflitto che ne deriva per le loro coscienze è lancinante. Giacché il peccato commesso è orrendo (la manomissione dell’altare, il rito blasfemo) urge addivenire a una composizione, benché la moralità di Tombo ne esca irrimediabilmente compromessa.
Il dissidio delle zittelle, ormai già dolorosamente convinte della necessità di estinguere il crimine col massimo della pena, viene solo parzialmente sanato dalla pomposa predica di Monsignor Tostini (che si pronuncia per l’appunto a favore della condanna) grassa cariatide rappresentante in toto del bigottismo più becero.
E la condanna viene finalmente decretata. Fra reciproci imbarazzi e lacrimevoli professioni di impotenza, le zittelle si risolvono all’esecuzione.
Si tratta di una scena sconvolgente, intrisa – dopo il funambolismo grottesco che fin qui ha contraddistinto ogni nota – di un pathos difficilmente ravvisabile altrove. La morte di Tombo si colora di commozione e di silenzio, il silenzio e il rispetto che solitamente si tributano alla morte degli umani. Tombo è – nella sua impotenza di animale – “intimamente abbandonato…” nonostante il terrore e lo sgomento che lo invadono, a “quelle volontà più forti della sua.”

Ma a questo punto conviene fermarsi. Le chiavi offerte sono ormai sufficienti per invogliare a una lettura, o rilettura, di questo appartato scrittore, Tommaso Landolfi. La sua intima scorrettezza, la sua politica così poco garbata, il suo desueto lessico di dialettismi e arcaismi, valgano a ristorarci, e, perché no?, a sanarci anche dagli ammorbanti miasmi di tanti decrepiti comunicatori sanremesi e imbonitori televisivi.
Rispondi