La metafora dell’infanzia non è che uno dei modi con cui D’Arzo costruisce la propria narrativa. Insieme ad essa lo scrittore ne inventa altre realizzando come della costanti variazioni sul tema: l’eterna reiterazione di una situazione di cui cambiano i volti.
Questo è senz’altro vero per quanto riguarda il gruppo di opere a cui ho fatto riferimento, Buon corsiero, Essi pensano ad altro e Osteria, una trilogia in cui il fattore di affinità non è l’essere l’uno la continuazione dell’altro ma, in fondo, la ripetizione. L’uso delle metafore è presente in essi mediante sovrapposizioni: ogni racconto, cioè, le può comprendere integrandole o lasciando che una prevalga sulle altre.
Abbiamo visto come in questi libri, al parametro infanzia corrisponda tutta una gradazione di partecipazione dei personaggi, più o meno resistenti alla logica di salvezza che il comportamento infantile reca con sé, ma anche che quasi nessuno di essi, ad eccezione di pochi, come Lauretta, la cui posizione è particolarissima, riesce ad ottenere appieno il riscatto (Lauretta è salva fin dall’inizio); la metafora, cioè, è quasi sempre figurazione di una tensione, di uno sforzo che rimane tale.
Oltre a quella dell’infanzia, che più avanti riprenderò, esiste un’altra metafora veramente caratteristica dell’universo darziano, spiccatamente evidente nell’Essi pensano ad altro (ma presente anche nelle altre due opere): la chiamerei metafora della rarefazione della materia.
Occorre, per comprenderne il meccanismo, rivedere da vicino alcuni momenti di questi racconti.
Nell’Essi pensano ad altro lo spazio si presenta il più delle volte come inconsistenza e trasparenza, come la realtà di leggerezza e levità di certi luoghi descritti e come, soprattutto, il fisico esile di Riccardo. Egli non può in nessun modo intervenire sulla realtà che lo circonda, il suo corpo, quasi scheletrico e come senza peso e gravità, è la rappresentazione di un’assenza più vasta che coinvolge tutte le potenzialità della persona. Ma in questo libro la metafora della leggerezza si arricchisce e si complica.
Questa condizione (l’essere senza radici) diventa ancora più spettrale e assurda nel momento in cui il personaggio, modellato in tale maniera, mostra di ignorare la sua menomazione cercando di entrare nel mondo degli altri uomini, con le loro consuetudini, i loro riti comuni. Prendendo a prestito una definizione della critica kafkiana, e incontrandomi con alcuni temi cari allo scrittore praghese, chiamerei questo tentativo di forzare una situazione fingendosi o credendosi diversi da ciò che si è, lo stato del domandare. Esso, nel romanzo in questione, non è che lo sviluppo, assurdo, della metafora: il contrappunto ironico dell’immaterialità.
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