C’è un altro brevissimo racconto kafkiano, Primo dolore, dove la situazione vissuta dal protagonista è, ancora, la storia di una trascendenza che non si compie. Questa volta la metafora è quella dell’infanzia.
Il protagonista, un trapezista di abilità straordinaria, ci viene presentato come un fanciullo, sebbene questo non venga mai affermato direttamente. Già il titolo sembra alludere al primo momento di un cammino di crescita: il dolore di cui si parla è una raggiunta consapevolezza, il primo grado di una cognizione che si realizza pian piano, come il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Verso le ultime battute della parabola si precisa ai nostri occhi la figura del trapezista, colta nel momento della sua primissima e parziale – ma decisiva – trasformazione, che si consuma nel breve e intenso dialogo con l’impresario del circo in cui si esibisce. L’acrobata dapprima chiede il secondo trapezio, presentato come oggetto insostituibile senza cui non sarà più possibile eseguire altri numeri, poi, nonostante le promesse sincere e affettuose dell’altro, scoppia improvvisamente in lacrime con la stessa violenza ingenua e apparentemente irrazionale di una nevrosi infantile. E’ molto interessante osservare come si comporta a questo punto l’impresario, che, per consolarlo, lo accarezza e preme il viso contro il suo fino a rimanere bagnato dalle sue lacrime. Il rapporto che si istituisce fra i due non risulta simile a quello esistente fra persone alla pari, come due adulti, ma ricorda molto di più quello che si verrebbe a creare fra un adulto e un bambino: non a caso Kafka descrive la fronte dell’acrobata come liscia e infantile, e le rughe che vi si formano, ci dice, sono le prime.
Il protagonista di Primo dolore è un individuo strano, la cui originalità ci stupisce. La sua storia è quella della sua diversità e della sua sofferenza, derivata dall’impossibilità di rendere inattaccabile lo spazio prescelto per la sua ansia di perfezione: l’alta volta del circo dove è situato il trapezio, che vorrebbe essere, come ha scritto giustamente Ferruccio Masini, una costruita trascendenza.
Sono tante, ovviamente, le affinità fra l’illusione di un distacco assoluto, che è la condizione del trapezista, e la ricerca di un isolamento totale da parte di Arseni e Riccardo nell’Essi pensano ad altro. E’ già stato visto come molti tratti delle personalità dei due amici siano caratterizzati da un candore fanciullesco: è la rappresentazione di una sorta di verginità interiore poco prima di essere segnata e logorata dall’esperienza, o nella fase in cui ciò sta avvenendo. Alla condizione di mistica beatitudine, subito infranta, del trapezista, ne corrisponde una, praticamente identica e ugualmente crollata, anche per i due protagonisti dell’Essi pensano: – Prima sì, – disse infine riposandosi. – Perché non sapevamo neanche cosa c’era fuori di questa stanza o questa casa, o solamente per sentito dire. Le bestie e il violino ci bastavano e non abbiamo mai pensato che qualche cosa valesse come quelle o meritasse di farcele dimenticare, di’ di no. E se poi io ti mettevo una tortora o un coniglio sopra l’ottomana, sul violino, tu non dicevi ancora niente, i primi giorni, ma io capivo lo stesso, e forse anche meglio. Perché ci sono cose che si capiscono subito, fra noi due. –
Inoltre Riccardo e Arseni, alla stessa maniera del trapezista, si sforzano di proiettare l’isolamento lungo una direzione verticale, in uno spazio trascendente. Non a caso, infatti, appena ricevuto lo sfratto, l’obiettivo principale delle loro ricerche è un appartamento situato il più in alto possibile: – La cosa più importante è trovare la casa, certamente, magari a un quinto piano o anche più su. –
– Deve essere quasi impossibile più su, – obiettò il vecchio. Si guardava nei vetri quasi ostilmente.
– Ma sarebbe bello no?- s’ostinò ancora il ragazzo a voler quasi ignorare difficoltà numeri e logica.
Arseni distolse lo sguardo dai negozi.
– Certo che a un quinto piano sarebbe bello, – pensò poi ad alta voce.
– Sarebbe come vivere in un’altra terra, specialmente d’inverno o quando piove. –
Per il trapezista, così come per Arseni e Riccardo – tutti individui la cui stranezza è definibile come una specie di diserzione dagli schemi d’abitudine nei quali ci radica il senso comune – ogni residuo, ogni frammento di comunicazione fra il mondo normale degli uomini e lo spazio trascendente a cui tendono ne impedisce l’assoluta giustificazione e realizzazione.
Nel Buon corsiero è naturalmente Lelio il luogo della contraddizione; Lepic nell’ Osteria. Sono entrambi incapaci di decidersi e la loro incapacità assume connotazioni di colpevolezza. Tutti e due si affannano per dimostrare qualcosa: Lelio, nel discorso finale, concitato e caotico, ma pieno di superstizioso terrore; Lepic con le rabbiose proteste rivolte allo sconosciuto, che terminano con l’angosciata supplica di non parlare più.
Anche se non vi è, nella narrativa darziana, quella dimensione di schiacciante trascendentalità che caratterizza quasi tutta la produzione di Kafka, è possibile definire il dramma di Lelio e Lepic, e in parte anche quello di Arseni e Riccardo, con queste parole scritte da Ladislao Mittner per descrivere il travaglio dei personaggi kafkiani: L’uomo escluso dalla vita che pur vorrebbe vivere… si ribella all’istanza superiore ritenuta inumanamente dura o almeno si scoraggia e, per giustificarsi del suo fallimento o della sua fiacchezza, applica il proprio metro personale… onde dimostrare, a se stesso più che agli altri, che l’istanza superiore è ingiusta.
La conclusione del saggio nella settimana successiva
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
Correlati
Trascendenza, infanzia, rarefazione: parte VIII
1 Maggio 2014 di Andrea Chesi
C’è un altro brevissimo racconto kafkiano, Primo dolore, dove la situazione vissuta dal protagonista è, ancora, la storia di una trascendenza che non si compie. Questa volta la metafora è quella dell’infanzia.
Il protagonista, un trapezista di abilità straordinaria, ci viene presentato come un fanciullo, sebbene questo non venga mai affermato direttamente. Già il titolo sembra alludere al primo momento di un cammino di crescita: il dolore di cui si parla è una raggiunta consapevolezza, il primo grado di una cognizione che si realizza pian piano, come il passaggio dall’infanzia all’età adulta.
Verso le ultime battute della parabola si precisa ai nostri occhi la figura del trapezista, colta nel momento della sua primissima e parziale – ma decisiva – trasformazione, che si consuma nel breve e intenso dialogo con l’impresario del circo in cui si esibisce. L’acrobata dapprima chiede il secondo trapezio, presentato come oggetto insostituibile senza cui non sarà più possibile eseguire altri numeri, poi, nonostante le promesse sincere e affettuose dell’altro, scoppia improvvisamente in lacrime con la stessa violenza ingenua e apparentemente irrazionale di una nevrosi infantile. E’ molto interessante osservare come si comporta a questo punto l’impresario, che, per consolarlo, lo accarezza e preme il viso contro il suo fino a rimanere bagnato dalle sue lacrime. Il rapporto che si istituisce fra i due non risulta simile a quello esistente fra persone alla pari, come due adulti, ma ricorda molto di più quello che si verrebbe a creare fra un adulto e un bambino: non a caso Kafka descrive la fronte dell’acrobata come liscia e infantile, e le rughe che vi si formano, ci dice, sono le prime.
Il protagonista di Primo dolore è un individuo strano, la cui originalità ci stupisce. La sua storia è quella della sua diversità e della sua sofferenza, derivata dall’impossibilità di rendere inattaccabile lo spazio prescelto per la sua ansia di perfezione: l’alta volta del circo dove è situato il trapezio, che vorrebbe essere, come ha scritto giustamente Ferruccio Masini, una costruita trascendenza.
Sono tante, ovviamente, le affinità fra l’illusione di un distacco assoluto, che è la condizione del trapezista, e la ricerca di un isolamento totale da parte di Arseni e Riccardo nell’Essi pensano ad altro. E’ già stato visto come molti tratti delle personalità dei due amici siano caratterizzati da un candore fanciullesco: è la rappresentazione di una sorta di verginità interiore poco prima di essere segnata e logorata dall’esperienza, o nella fase in cui ciò sta avvenendo. Alla condizione di mistica beatitudine, subito infranta, del trapezista, ne corrisponde una, praticamente identica e ugualmente crollata, anche per i due protagonisti dell’Essi pensano: – Prima sì, – disse infine riposandosi. – Perché non sapevamo neanche cosa c’era fuori di questa stanza o questa casa, o solamente per sentito dire. Le bestie e il violino ci bastavano e non abbiamo mai pensato che qualche cosa valesse come quelle o meritasse di farcele dimenticare, di’ di no. E se poi io ti mettevo una tortora o un coniglio sopra l’ottomana, sul violino, tu non dicevi ancora niente, i primi giorni, ma io capivo lo stesso, e forse anche meglio. Perché ci sono cose che si capiscono subito, fra noi due. –
Inoltre Riccardo e Arseni, alla stessa maniera del trapezista, si sforzano di proiettare l’isolamento lungo una direzione verticale, in uno spazio trascendente. Non a caso, infatti, appena ricevuto lo sfratto, l’obiettivo principale delle loro ricerche è un appartamento situato il più in alto possibile: – La cosa più importante è trovare la casa, certamente, magari a un quinto piano o anche più su. –
– Deve essere quasi impossibile più su, – obiettò il vecchio. Si guardava nei vetri quasi ostilmente.
– Ma sarebbe bello no?- s’ostinò ancora il ragazzo a voler quasi ignorare difficoltà numeri e logica.
Arseni distolse lo sguardo dai negozi.
– Certo che a un quinto piano sarebbe bello, – pensò poi ad alta voce.
– Sarebbe come vivere in un’altra terra, specialmente d’inverno o quando piove. –
Per il trapezista, così come per Arseni e Riccardo – tutti individui la cui stranezza è definibile come una specie di diserzione dagli schemi d’abitudine nei quali ci radica il senso comune – ogni residuo, ogni frammento di comunicazione fra il mondo normale degli uomini e lo spazio trascendente a cui tendono ne impedisce l’assoluta giustificazione e realizzazione.
Nel Buon corsiero è naturalmente Lelio il luogo della contraddizione; Lepic nell’ Osteria. Sono entrambi incapaci di decidersi e la loro incapacità assume connotazioni di colpevolezza. Tutti e due si affannano per dimostrare qualcosa: Lelio, nel discorso finale, concitato e caotico, ma pieno di superstizioso terrore; Lepic con le rabbiose proteste rivolte allo sconosciuto, che terminano con l’angosciata supplica di non parlare più.
Anche se non vi è, nella narrativa darziana, quella dimensione di schiacciante trascendentalità che caratterizza quasi tutta la produzione di Kafka, è possibile definire il dramma di Lelio e Lepic, e in parte anche quello di Arseni e Riccardo, con queste parole scritte da Ladislao Mittner per descrivere il travaglio dei personaggi kafkiani: L’uomo escluso dalla vita che pur vorrebbe vivere… si ribella all’istanza superiore ritenuta inumanamente dura o almeno si scoraggia e, per giustificarsi del suo fallimento o della sua fiacchezza, applica il proprio metro personale… onde dimostrare, a se stesso più che agli altri, che l’istanza superiore è ingiusta.
La conclusione del saggio nella settimana successiva
Condividilo:
Mi piace:
Correlati
Pubblicato su commenti, letture critiche, scrittori emiliano-romagnoli, scrittori reggiani | Contrassegnato da tag Essi pensano ad altro, Ferruccio Masini, Kafka, L'Osteria, Ladislao Mittner, Primo dolore, Silvio D'Arzp, trascendenza | Lascia un commento
Comments RSS