Nel Buon Corsiero l’immaterialità è, in generale, più degli ambienti che dei corpi; è una dimensione diffusa, particolarmente viva in certi momenti, capace di abbracciare indifferentemente il cortile della locanda, le sue stanze, la strada, la piazza del paese. Assai frequentemente il vuoto è anche vuoto temporale, è sospensione del movimento, interruzione.
Le metafore dell’infanzia e del vuoto sono trucchi sistematici della scrittura darziana: non è difficile trovarle accostate o intrecciate in diversi passi. La loro integrazione caratterizza le situazioni con evidenza ancora maggiore.
Il brano della visita alla villa delle statue, nel Buon Corsiero, ne è un esempio interessante.
Mentre Lauretta e la Marchesa si avvicinano alla villa, lo scrittore annota che, nella mente di quest’ultima, l’immagine del funabolista… che fra qualche ora avrebbe attraversato il vuoto della piazza con quel suo pallido e severo sorriso di una statua, continuava a vivere ancora… come i sogni di una miracolosa infanzia…
Poco dopo leggiamo: un cancello di lance nere e verdi… separava la villa dalla strada, conferendole anzi un aspetto di cosa non più accessibile agli uomini e ormai morta, come se però, per mezzo appunto di quel cancello a lance nere e verdi, l’attimo fosse stato fermato per miracolo e tutto, atteggiamento di statue, pesci, fronde, apparisse ancora come in quell’istante prima della morte.
E’ un costellare la storia di simboli, una continua generazione di maschere. Il tempo che viene frequentemente bloccato è l’elevazione dello stato di incompiutezza a categoria di base nella complessa struttura del racconto.
A un tratto, alle due donne sopraffatte dal silenzio del luogo e intente ad osservare, dal bordo del parco, l’animazione di uomini e ragazzi presente nella strada, sembra di trovarsi al di fuori della vita, come osservatici estranee e lontane. Ma per loro, di cui viene riconfermata la posizione privilegiata, non è difficile riacquistare velocemente la dimensione originaria, la grazia che affranca, la trascendenza infantile: E, poi che quella loro presunta gioia era di una facilità infantile e così a portata di mano, veramente, che anche ritardandola di un momento o due, non l’avrebbero in nessun modo compromessa, decisero di avvicinarsi senz’altro alla fenditura della siepe, ma di attraversarla soltanto, e di uscirne quindi sulla strada, quando gli ultimi fossero già passati avanti a loro.
Per la Marchesa e Lauretta non ci sono situazioni vincolanti; vi è una fondamentale libertà, un’autonomia pressoché assoluta mediante cui ogni condizione perde i suoi aspetti minacciosi e diventa semplicemente un’avventura piacevole. La presenza del funambolo, reale o soltanto immaginata, continua a occupare i loro pensieri fino a renderle certe di essere giunte all’acme della loro esistenza.
Lelio è fermamente convinto che l’assassinio del funambolo gli farà rompere i ponti con la vita; pensa cioè di andare incontro a un cambiamento sostanziale. Si sente perseguitato dal destino e per questo, mentre si trova a frugare furtivamente nelle cucine della locanda per impossessarsi di un coltello abbastanza robusto e tagliente col quale recidere la fune su cui l’uomo in viola attraverserà la piazza, qualcosa di definitivo lo anima, a cui, annota lo scrittore, a nessun costo avrebbe voluto rinunciare. Il ragazzo prova una sensazione di fierezza e di orgoglio attraverso la quale vorrebbe realizzare non soltanto l’ambizione di un gesto clamoroso, ma l’assolutizzazione della sua condizione negativa di sradicato. E’ ansioso di portare a termine l’impresa e, giunto ai bordi della piazza, anche lui, – come Riccardo nell’Essi pensano ad altro – deve scontrarsi con la consapevolezza fastidiosa della sua incorporeità, della sua fisicità ben proporzionata ma alquanto esigua: Lelio… cercava per dir così di orizzontarsi e dirigersi così verso la fune… proposito, questo suo, tutt’altro che facilmente realizzabile, perché le spalle, i gomiti, le teste, che egli sentiva premere da ogni parte e continuamente contro sé, mostravano solidezza e insensibilità come di cosa e, in una parola, disarmanti.
Ad un certo momento gli accadde anzi, per l’improvvisa pressione di una squadra di doganieri lasciati in libertà, di sentirsi quasi sollevato e trasportato via con una forza lenta ma implacabile…
Infine Lelio raggiunge l’estremità della fune infissa a terra e si appresta a concludere. D’Arzo non dimentica di sottolineare ancora una volta quanto il giovane si senta malinconicamente estraneo non soltanto agli occhi, pendenti dal filo, del funambolo, ma anche a tutta la folla: … provò la sensazione di essere diverso da loro anche nel corpo, di essere una cosa curiosa in mezzo ad uomini.
Ma in fondo è proprio questo che Lelio vuole: mettere una distanza definitiva fra sé e il mondo. Quando, fra poco, si troverà nuovamente di fronte l’uomo in viola sulla strada del ritorno, la sorpresa sarà enorme, ma ancora maggiore sarà l’angoscia dovuta alla consapevolezza d’essere di nuovo, per Lauretta e per tutti, il mediocre Lelio di sempre, lo staffiere scontroso e timido.
Adesso l’ironia che lo investe è ancora più profondamente umiliante: quella ammiccante del funambolo, e quella inconsapevole, innocente di Lauretta.
Alla domanda della giovane: Perché qualche volta si cade?, l’acrobata posa lo sguardo su Lelio e risponde sorridendo, rivolto a lui, come per segno di un’antica intesa, che qualche volta si può anche cadere, dopo tutto.
Le altre parti del saggio nelle prossime settimane
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