L’anno scorso la casa editrice Quodlibet, a distanza di dodici anni dalla prima edizione Feltrinelli, ha riproposto all’attenzione dei lettori il fortunato romanzo Silenzio in Emilia dello scrittore reggiano Daniele Benati.
Accolto con successo di critica quando è uscito e vincitore di diversi premi, ultimamente il libro era divenuto introvabile.
Lieti per la ristampa, dopo le pagine dedicate a Silvio D’Arzo, proseguiamo la nostra rassegna sugli scrittori reggiani con questo autore a nostro avviso assai rappresentativo nel panorama letterario emiliano e non solo.
Silenzio in Emilia racconta dell’esperienza surreale di personaggi morti che “tornano indietro” nei luoghi della loro esistenza terrena per continuare quello che facevano in vita: “Ci sono molte credenze legate ai morti – dice l’autore stesso a inizio del primo episodio – che però in tempi moderni non valgono più. La gente non ci crede o non ci pensa, ecco il perché. Ma dice un tale dalle mie parti che i morti tornano spesso dove hanno vissuto, delle volte passandoci in treno di notte, oppure delle altre compiendo un’azione tipica della loro vita “.
Nel tornare al loro vecchio mondo, le anime, però, avvertono un attrito. Innanzitutto, perché non riconoscono più i luoghi familiari che adesso si sono modernizzati; in secondo luogo, perché non recepiscono la loro condizione metafisica. Questa inconsapevolezza è poi quella che dà origine a situazioni paradossali e spesso comiche, sottolineate da un lessico e da una fraseologia popolare o popolareggiante vivissimi, in cui l’impressione di linguaggio parlato viene restituita con l’utilizzo in chiave espressiva di ripetizioni, anacoluti, ellissi e attraverso la frammentazione del periodo. Così a Baraldi gli hanno “tolto d’in mano la borsa”, mentre il protagonista del terzo racconto dice: “vedevo tutta la scanalatura del petto. Vedevo il petto della moglie di Afro che sembrava morbido e profumato, e mi è venuta voglia di metterci il naso in mezzo e di annusare, che però non l’ho fatto”. Si aggiungono poi altre tipiche espressioni dell’oralità reggiana come: “ Veh, Cagnolati!; “è andato là a scuriosare”; la loro società era andata a ramengo”; “Ah, non lo so mica”; “Venga un canchero al Mecco”, ecc.
Il mimetismo linguistico, poi, insieme all’accurata selezione onomastica tutta rigorosamente reggiana dei Badodi, dei Cigarini, degli Ascari, dei Soncini è assai funzionale a renderci familiari questi eccentrici che ci appaiono come lo specchio di un’emilianità concreta e insieme originale, testarda, scontrosa ma anche bizzarra e un po’ strampalata.
Ma la soglia bassa della prospettiva narrativa e il ‘non sapere’ dei personaggi serve soprattutto, stando sempre alle parole dello scrittore, a ridare dignità alle cose banali della vita a cui normalmente non si fa caso: il fantastico di Benati non si manifesta dunque nello straordinario ma nell’ordinario, che viene così sottratto all’automatismo della percezione.
E proprio a partire dalla configurazione del paesaggio, la realtà circostante non ha più niente di consueto: ci si smarrisce in luoghi aperti e “distese di niente”, si fatica a trovare l’orientamento in strade che sembrano tuffarsi lontano in un banco di nebbia, ci si trova immersi in un silenzio irreale che avvolge tutte le cose.
Spazi metafisici e silenzi irreali rappresentano dunque i correlativi oggettivi della condizione sospesa di queste anime in un non-luogo posto a mezza via tra questo mondo e l’aldilà. Nelle avventure di questi morti che tentano di rivivere il loro passato e di cavarsela con “mezzi un poco al di sotto del bisogno“, emerge allora e intensamente il senso della tragicità dell’esistenza. Un tragico che non tocca mai le vette della disperazione ma che nondimeno si percepisce proprio a partire dal quotidiano avvertimento del contrario.
Per porre fine a questa situazione di incertezza, per lasciare definitivamente questa dimensione che pare una dimensione purgatoriale più che infernale, come invece è stato detto e come credono molti dei protagonisti del libro (“ho capito che stavo per morire come i peccatori di Dante Alighieri all’inferno”), è necessario, però, che i personaggi dei racconti rivivano la loro morte, cosa che puntualmente avviene a fine di ogni racconto.
Solo l’undicesimo e ultimo episodio, intitolato Tema finale, che l’autore ci ha detto essere la cornice narrativa dell’intero volume e la chiave interpretativa di tutte le storie, si conclude in modo diverso, con il protagonista, il figlio di Socetti, che va in Paradiso.
E ci va tenendo la bicicletta per mano, sotto la banalissima luce dei lampioni, mentre legge il tema alla sua guida, la compagna di classe di cui in vita era segretamente innamorato, che, guarda caso, di cognome fa Portinari come la Beatrice dantesca.
Alla fine, come direbbe Silvio D’Arzo, “non ci sono paradisi: umano il cercarli, umanissimo il crederci, ma di un triste ridicolo il trovarli davvero“.
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