di Andrea Chesi
La domanda è sempre quella: “Prof, ma come fanno a piacerle questi cretini???”, quando in quinta, verso la fine dell’anno, comincio la mia lezioncina sulle avanguardie partendo dagli Skiantos.
E’ inutile, hai un bel da dire, per loro quei testi deliranti sono solo un conato un po’ scemo, grossolano, inutile… vuoi mettere con il Liga?
Non che non ridano, anzi, si divertono da matti, direi quasi che il loro riso è quello eccessivo di chi in una cosa vede solo l’aspetto comico e liquida tutto sghignazzando.
E allora capisco quanto Roberto Freak Antoni , leader del gruppo, fosse davvero un marziano dadaista, un concentrato di sberleffi psichedelici sideralmente lontano dalla libertà obbligatoria, per dirla con un altro lunatico, che è il tappeto rosso spianato davanti ai ragazzi di oggi (copyright Ramazzotti) che si arrabattano nell’idiozia luccicante dei reality, dei talent, dei talk, delle Balivo, delle D’Urso e via nell’infinito del nulla.
Intendiamoci, il Freak sapeva benissimo di non avere inventato niente, ma era spregiudicato e sfrontato nel riproporre i modi delle avanguardie in una società inerte che infatti apprezza e addirittura mitizza Elio, la cui pseudocomicità artefatta è un prodotto perfetto per un certo tipo di utenza che si crede intelligente e raffinata…
La sgangheratezza sublime degli Skiantos è, consapevolmente, la caricatura di un linguaggio d’avanguardia evocato con tenerezza, con nostalgia, da parte di chi in realtà ha ben poche illusioni e velleità di ricostruzioni futuriste dell’universo. Rimane, però, l’aspetto deflagratorio , corrosivo, agrodolce a scardinare i luoghi comuni e le ipocrisie più sottili (com’è difficile restare intelligenti quando c’è la nazionale dei cantanti…), le mitologie machistiche pullulanti nelle pubblicità (la voce di Stefano Accorsi, suadente al limite dell’ultrasuono, che magnifica la carrozzeria di un’automobile, i belli e impossibili che viaggiano in compagnia di gnocche da ufo). Il Freak sapeva farsene un baffo e queste cose le trattava per quello che sono, basterebbe un distico di endecasillabi come questo, scemo fino alla soglia del genio: io spero di trovarne una carina|e di portarla in Vespa su in collina, a riassumerne la carica irrisoria e salutare, a misurare le boccate d’ossigeno che sapeva elargire la vena di questo Gran viaggione disperato e infaticabile, di cui ora più che mai, nel deserto di tronfiaggine dominato dall’arrivismo mediatico e dalla retorica dei tromboni, si sente il bisogno.
Andatevi a riascoltare, così, giusto per respirare meglio e cominciare a polmoni spiegati la giornata, certi classici intramontabili come Largo all’avanguardia, di cui si può dire che mai il non senso abbia avuto più significanza e bellezza (a me piace girare facendo dei giri non brevi ma lunghi… a me piace giocare facendo dei giochi ne ho pochi ma buoni… a ma piace scoreggiare! Non mi devo vergognare, non c’ho niente da salvare! L’avanguardia alternativa non fa sconti comitiva, l’avanguardia è molto dura, e per questo fa paura!), oppure l’attacco folgorante di Eptadone, con quelle voci filtrate di adolescenti tossici che parlano di banane gigantesche e quell’unodueseinove sgangheratissimo che dà il via al riff frenetico di chitarra… fino alle più recenti (sono veramente moltissime) come quell’atipica Io dentro, dall’album Doppia dose (due supposte in copertina), cinica e disperata nella sua sberleffante lucidità.

14022007-FREAK ANTÚNI-foto Nucci
Insomma, il vuoto lasciato da questo ragazzo che faceva un vanto della propria bruttezza, che esibiva il suo pendente ombelico e la pancia trasbordante, che si faceva fotografare in mutande e con le dita nel naso, è, per quanto mi riguarda, un vuoto lancinante, per questo, proprio in questi giorni (qualche giorno fa avrebbe compiuto sessantadue anni) abbiamo voluto ricordarlo.
Trascendenza, infanzia, rarefazione: conclusione
8 Maggio 2014 di Andrea Chesi
Riporto, per concludere, il testo di una nota, abbastanza lungo, che avevo inserito nel saggio quando lo presentai al mio relatore. Mi sembra un’integrazione funzionale al discorso fatto fin qui.
A partire dalle primissime pagine del Buon corsiero, già molti meccanismi sono avviati che si riveleranno fondamentali nel corso della lettura.
L’arrivo della Marchesa innesca le reazioni dei servi e caratterizza una situazione esemplare. Mentre tutti si danno da fare, la giovane donna nota un particolarissimo senso di agitazione che anima il cortile, e poco dopo interroga Lauretta e un servo per saperne la causa. Alla domanda della Marchesa la ragazza risponde con infantile determinazione che in paese si sta per esibire il funambolista, e la notizia viene accompagnata da una serie di minute spiegazioni che denotano l’assoluta singolarità che l’evento assume nella mente della gente. Il servo, poi, conclude il racconto affermando di avere scommesso quindici scudi con Sertorio che il funambolo riuscirà ad attraversare, e lo stupore, scrive D’Arzo, finisce per entrare nella Marchesa come una dolce malattia; infine, a un tratto, tutta la locanda piomba nel silenzio magico e inquietante che da questo momento in poi accompagnerà tutte le entrate in scena dell’uomo in viola. Lauretta, poi, richiesta dalla Marchesa, scende le scale e si dirige nel cortile per scoprire la causa dell’improvviso mutamento. Appena fuori dell’uscio, sul corridoio, incontra Lelio, impegnato in maniera assolutamente sproporzionata alla bisogna, nel lucidare le staffe di una sella, allo scopo evidente di giustificare la sua presenza nel luogo in cui avrebbe potuto al più presto vedere la ragazza. Mentre la locanda seguita ad essere immersa in un silenzio irreale, si svolge il dialogo fra i due. Lelio aggredisce, o quasi, Lauretta, afferrandola per le spalle e chiedendole ansiosamente la conferma della notizia ricevuta casualmente e indirettamente, quella mattina, del matrimonio della sorella di Lauretta, che vorrebbe dire, per i due giovani, la possibilità di sposarsi al più presto a loro volta. Ma tutta l’audacia improvvisa di Lelio non è sufficiente a scuotere veramente la ragazza, distratta da quel silenzio e già misteriosamente attratta da tutto ciò che quel silenzio sembra promettere e rappresentare. Non senti questo silenzio?, taglia corto, a un tratto, Lauretta; poi, senza attendere risposta, scivola veloce giù dalle scale. Nel cortile è entrato il funambolo, e la sensazione comune, annota lo scrittore, è di totale sospensione del tempo, pur nella consapevolezza, da parte di tutti, di quanto ciò sia eccessivo e inadeguato rispetto al pensiero di una pur straordinaria esibizione.
In ultimo, a riprova delle somiglianze emerse – pur con le dovute proporzioni – fra il mondo dello scrittore reggiano e certe soluzioni ricorrenti nella narrativa kafkiana, vorrei citare queste parole, tratte da una lettera scritta a Enrico Vallecchi, del 26 dicembre 1948, con cui D’Arzo definisce sinteticamente Il castello di Kafka: … la lettera che non viene mai, la chiamata che si aspetta e non arriva.
La frase – dovrebbe venire in mente subito a tutti coloro che conoscono le opere dello scrittore reggiano – si potrebbe attribuire senza troppe forzature anche al suo Casa d’altri.
Ci sono, citati con essenzialità, gli stessi ingredienti.
Il tema della chiamata, prima di tutto ( non c’è dubbio che il prete si senta convocato a un appuntamento di importanza decisiva, che diventa ben presto esclusivo) che ha assunto nella narrativa novecentesca una portata allegorica non comune, specialmente con Kafka e nell’ambito della letteratura più vicina all’esistenzialismo.
E poi la lettera, uno degli strumenti e anche dei simboli della chiamata. Per alcuni aspetti succede, in Casa d’altri, anche se molto più in piccolo, come nei romanzi di Kafka. Gli indizi si moltiplicano, ma questo non fa che aumentare il turbamento, l’attesa, la confusione. C’è la lettera, appunto, che Zelinda porta e si affretta poco dopo a riprendere senza che il parroco possa leggerla, che irrita e accresce la sua irrazionale e ossessiva necessità di sapere, e molti altri minimi segni di intesa, offerte, indecisioni, che non fanno che infittire il mistero. Il prete si sente chiamato in causa con un’urgenza che supera la sua tentazione di tacere, di ritirarsi di fronte a un problema che sa di non poter risolvere; tutte le risposte che gli vengono alle labbra, infatti, sono tragicamente inutili: in realtà non fanno che ripresentare e confermare la domanda.
Il racconto si chiude su questo interrogativo. Come ha scritto Paolo Lagazzi, disponiamo solo della terribile domanda centrale, e di una storia che si chiude circolarmente intorno ad essa senza alcuna apertura ad altri spazi, ad altri sensi.
La domanda della Zelinda è della medesima specie di quelle terribili di cui parla Kafka nel passo che ho riportato dai suoi Diari: un puro segno.
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